Merceologia e potere di assoggettamento del vissuto spaziale

Un viaggio alla fiera MIA Fair di Milano, tra fotografia e arte, ma senza anima

di Vito Calabretta

Un mio intelligente interlocutore mi ha illuminato e spiegato l’errore che facevo nel visitare la fiera MIA, sempre più triste e attento a non dover scambiare impressioni con persone conosciute, per paura di trovarmi in imbarazzo a parlare di contenuti di così scarso livello.

Mi ha spiegato che l’errore sta nel considerarla una manifestazione interna al mondo dell’arte, errore che io ho commesso in pieno. Va invece presa come la fiera di uno specifico prodotto merceologico che assomiglia di più, per esempio, al vinile vintage, al libro antico, all’arredo per giardino, al bagno o alla cucina.

Ciò spiega il suo successo commerciale, che mi è sembrato di capire sia buono: l’anno scorso uno stand riusciva a vendere, a pezzi da mille fino a seimila cadauno, per un totale di ottantamila euro, mentre
gallerie attive nel settore dell’arte non hanno venduto niente e quest’anno non sono tornate.

All’interno di questo quadro possiamo ricostruire i valori interni e confrontarli con una nostra visione estetica ma dobbiamo farlo come lo faremmo se andassimo a una fiera dei choppers o dell’arredamento del bagno.

Peraltro, a proposito dei valori interni a quel settore merceologico, sono rimasto shoccato, uscendo dalla fiera che a Milano è nel sito dove una volta stava la giostra delle Varesine, dalla totale continuità tra i “valori” estetici espressi negli stand e i corrispondenti espressi dagli edifici di recente costruzione e dal generale impianto di occupazione degli spazi urbani.

Pullula il culto dello spigolume, fin dall’edificio che sta sopra alla fiera e che è stato ribattezzato Diamond Tower (a mio avviso il meno inguardabile di tutto il complesso).
Usciti sulla piazza Bo Bardi si è oppressi dagli spigoli verticali e sguinci dell’edificio e, sensitivamente, si sente sul proprio collo il dolore di tutti quegli angoli acuti.

Volgendosi verso il palazzo dell’Unicredit e il grattacielo detto Bosco Verticale che significativamente è stato da taluni definito il grattacielo più bello del mondo, si assiste a una ribollita di spigoli
che spuntano inutilmente da tutte le parti e che rigurgitano dalle enormi facciate degli edifici, rendendoli visivamente ancora più incombenti in una apoteosi del fuori scala, in particolare con la configurazione dei terrazzi a sbalzo fuori misura.

Tutto ciò, per quanto io possa capire, si impone senza alcuna ragione architettonica. Non credo che chi acquista una dimora in tali edifici sia cliente della fiera MIA; credo piuttosto che compri al MIART
(sarebbe interessante approfondirlo). È però probabile che il cliente di MIA frequenti l’insediamento che la circonda e veda magari con deferenza quella espressione di potere.

Ecco dunque forse perché la fiera MIA e il quartiere dove è sita hanno successo: perché esprimono un potere di condizionamento del modo in cui i cittadini si rapportano con lo spazio e con l’immagine dello spazio.