di Antonio Marafioti
Il soggetto è vincente: intervistare un gruppo di donne durante uno dei loro rituali preferiti, quello dello shampoo. La trovata è quella di farle rilassare per poi infilare una serie di domande su tematiche pubbliche e private riguardanti la loro vita. Dalla convivenza, possibile, fra arabi ed ebrei ad Haifa, Israele, fino al matrimonio, considerato da molte clienti un tipo di unione già più improbabile.
Women in sink, della giovane regista israeliana Iris Zaki, è un documentario fresco girato in una terra apparentemente arida. È la stessa autrice ad ammettere per prima l’approccio sbagliato con l’immagine che si era fatta della realtà: «Sono venuta qui – confessa a metà pellicola- mossa da idee politiche tipicamente di sinistra. Credevo che mi sarei trovata davanti a testimonianze di donne arabe costrette a vivere in una posizione di secondo piano in una città israeliana e invece…». E invece le storie che Zaki ascolta sono tutt’altro che storie di discriminazione.
La regista consegna al pubblico la cronaca di un lembo di terra in Medio Oriente in cui arabi (cristiani) ed ebrei riescono a vivere serenamente e perfino a proteggersi nei momenti di bisogno.
Testa sotto l’acqua, Lea, ebrea, confessa di non essere infastidita dal fatto che Fifi, la padrona del salone, sia araba. «Durante l’Intifada – racconta – ho deciso di sostenere la comunità araba della mia città. Le loro attività venivano boicottate e lo trovavo semplicemente ingiusto».
Helen, di padre arabo e madre ebrea, ricorda l’opposizione dei nonni materni al matrimonio della figlia con un libanese. «Mio padre era cristiano, ma la famiglia di mia madre era ultraortodossa, all’inizio ci fu una ferma opposizione. Poi capirono». Helen crebbe, così, in una famiglia in cui alcuni dei suoi fratelli vennero educati come arabi, altri di loro come ebrei. «Io mi sento araba – dice – ma amo i cristiani e Gesù».
Karin è un’insegnante: «Nella mia classe ci sono studenti drusi che si integrano bene col resto della classe di altre appartenenze. Dovrebbero esserci più scuole miste per migliorare l’unione». Dalia parla arabo. L’ha imparato dai genitori, russo lui, polacca lei, che si trasferirono ad Haifa per lavoro. Per lei il razzismo è «proprio delle frange estremiste, non della maggioranza del popolo». Così come lo è per Fifi, la principale, che «ringrazia dio per essere nata e cresciuta in Israele. Qui c’è posto per tutti, il vero problema sono i fanatici di entrambi gli schieramenti».
Infine Irit, polacca come la nonna della regista. Durante il secondo conflitto mondiale non finì in un campo di concentramento perché rimase «nascosta per un anno e mezzo in uno scantinato ad aspettare la fine della guerra».
La forza del tessuto narrativo sta tutta nella schiettezza del racconto di queste donne. Ziki, questa la sua bravura, sembra non voler nascondere niente. Filma senza censure – lei stessa parlerà con scioltezza della propria libertà sessuale – un documentario che se non cambia, perché non può, la lunga storia di intolleranza che ha segnato lo svolgersi degli eventi in molti di quei luoghi, contribuisce quantomeno a scalfire diversi convinzioni errate, ma date per assodate da una narrazione politica manichea e, talvolta, approssimativa.
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