di Antonio Marafioti
Provate a pensare di dover girare un film sulla democrazia e i diritti civili in Turchia. Provate a immaginare di essere poco più che maggiorenni e di dover partire da zero, a livello tecnico e autoriale. È quanto narrato dal documentario Through my lens della regista turca Nefin Dinç, in concorso nella sezione doc alla prima edizione del Festival dei Diritti Umani di Milano.
La pellicola racconta le difficoltà di produzione affrontate da settantadue studenti liceali e universitari provenienti da sei diverse città della Turchia e inseriti in progetto didattico volto a stimolare l’espressione delle idee attraverso l’arte cinematografica.
Dieci giorni di preparazione in classe, l’assegnazione dei ruoli, dal regista al tecnico del suono, e la libertà più assoluta nella scrittura e l’esecuzione della sceneggiatura.
Il tutto in 18 mesi durante i quali sei troupe da 12 componenti ciascuna hanno lavorato in sei diverse città del Paese: Edirne, Konya, Antakya, Sivas, Mardin e Artvin. Al loro fianco la stessa Dinç in qualità di responsabile di questa scommessa, vinta, dell’Università di Stato di New York con sede a Fredonia.
I ragazzi sono stati chiamati a raccontare il loro Paese con il solo avvertimento di creare, per quanto possibile, un vero spirito di squadra. I temi con i quali si confrontano sono quelli più spinosi. Lo fanno ponendosi, e ponendo, domande senza avere la benché minima presunzione di offrire risposte o soluzioni. Sono le risposte e le soluzioni che da anni cercano anche i più grandi; quelli che nel Paese ci vivono e quelli che lo governano. In ordine sparso e non esaustivo: la questione curda, i diritti delle donne, il ricordo di Hrant Dink e il rispetto dei diritti degli armeni, la garanzia dei diritti umani e della democrazia. Tanta, tantissima carne al fuoco.
L’osservazione passa attraverso la loro lente, surrogato necessario dei loro occhi, delle loro teste e dei loro cuori.
Una ragazza del gruppo racconta di un pensiero ricorrente: una bambina seduta accanto a un formicaio che crolla, si intristisce per le sorti degli insetti che lo abitavano. Le si strozza la voce e inizia a piangere confessando che quello è un suo ricordo d’infanzia che ancora la perseguita. «Mi fa pensare da sempre – dice – che niente al mondo è davvero come appare». Lo sforzo chiesto dai tutor del progetto è proprio quello di cercare di andare oltre le apparenze e raccontare con la massima indipendenza la vita in Turchia. Garantiscono che non ci sarà alcun controllo del girato, alcuna censura sul montato e alcun tipo di soggezione artistica o politica. «L’inquadratura è l’essenza del cinema», è l’unico vero consiglio che si sente durante il film.
La storie che seguiranno sono reali e raccolte fra avversità di diverso genere. Una madre impedisce al figlio di partecipare a un film per paura che questo possa offendere l’Islam; una signora, impaurita dalla telecamera, perde letteralmente il controllo e rincorre un’intera troupe per le vie di Edirne; un uomo in preghiera cerca di impedire le riprese davanti a un luogo di culto; il proprietario di un muro a secco minaccia di denunciare uno di loro che ci ha scritto sopra una frase con una bomboletta spray. «Credevamo di avere il consenso», «Non ve l’ho mai dato» sarà il breve botta e risposta. Non saranno gli unici problemi da affrontare tra microfoni che si scaricano, cavalletti che mancano, luci che calano prima delle riprese. Non saranno neanche i più preoccupanti.
C’è chi si chiede se si possano inserire frasi in lingua curda all’interno delle riprese, chi ha paura di subire discriminazioni, chi confessa di averle già subite per il sol fatto di appartenere a una delle minoranze del Paese. Come il giovane che ricorda la famosa leggenda nazionale secondo la quale i curdi avrebbero la coda.
Sorprendono anche le interviste girate per le strade delle città: le opinioni delle donne anziane e quelle dei bambini sono stranamente concordi sulla figura della donna nella società. Forte, ma subordinata all’uomo, per le prime; debole e quasi obbligata a rispettare il vero capo famiglia, per i secondi.
È una società che sembra immobile quella raccontata dai giovani coinvolti che non faranno mai segreto di voler partire per cercare altra fortuna all’estero. Intanto li vediamo protagonisti alla première dei loro lavori negli Stati Uniti dove visiteranno il campus universitari, incontreranno gli spettatori dei loro lavori e faranno una gita alle cascate del Niagara. Torneranno così rinvigoriti da riuscire ad affrontare a testa alta perfino le feroci critiche dei giornalisti della stampa nazionale.
«Abbiamo scelto di raccontare l’ineguaglianza in questo Paese» risponderà una delle ragazze a un cronista che con aria piuttosto alterata le aveva chiesto perché non avessero girato un film che facesse risaltare le bellezze di Artvin.
Il botta e risposta che ne segue segna concretamente la misura del risultato finale che è ottimo. È consapevolezza allo stato puro. È forza nei propri mezzi espressivi. È quella dose di amor proprio che rinforza i ragazzi e, attraverso loro, anche il progetto e il doc stesso. C’è un percorso ben definito – ma mai dato per scontato – che si compie fra mille avversità per poi sfociare nella ricerca del coraggio delle proprie idee; nell’uso di queste nella vita di tutti i giorni. Uno dei registi dirà: «Ho fatto questo film, l’ho girato io». È commosso e stupito, dalla sua parte della lente.
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