Il 9 maggio ci terrà una riunione di emergenza per discutere delle ennesime riforme che la Grecia dovrà aiutare per lo sblocco dei prestiti. Ennesima puntata di una storia di ostinata miopia politica da parte dell’Eurogruppo.
Di Clara Capelli
[Aggiornamento] Nella notte tra l’8 e il 9 maggio il Parlamento greco ha approvato la riforma delle pensioni e l’aumento delle aliquote IVA in vista della riunine d’emergenza prevista per lo sblocco degli aiuti. Accesi scontri tra la polizia e i manifestanti si sono avuti nella capitale Atene. I giornali internazionali iniziano a parlare della possibilità di un alleggerimento del debito greco da parte dei creditori.
Di tanto in tanto è opportuno ricordarsi di come la crisi greca sia stata e sia gestita in modo miope, per usare un eufemismo, in sede europea. Non se ne abbiano i detrattori di Tsipras e Varoufakis, ma anche se al timone ci fossero state altre formazioni politiche la situazione non sarebbe cambiata sensibilmente; forse sarebbe stata governata in modo meno pasticciato e indubbiamente meno mediatico, ma i problemi della Grecia non sarebbero stati risolti né tantomeno alleviati.
Un nuovo capitolo di difficoltà sembra intanto aprirsi per il premier Tsipras e il successore di Varoufakis al dicastero delle finanze, Euclid Tsakalotos. Il mese di aprile 2016 li ha visti infatti scontrarsi con l’Ecofin (il Consiglio dei Ministri delle finanze dell’Unione Europea) riguardo all’introduzione di alcune “misure di emergenza” da adottare qualora la Grecia non riuscisse a rispettare gli impegni presi in termini di obiettivi macroeconomici, come per esempio l’ottenimento del surplus di bilancio primario (ossia senza considerare il pagamento degli interessi sul debito) del 3,5 percento entro il 2018.
Raggiungere un accordo a proposito è condizionale per lo sblocco dei prestiti legati al terzo programma di aiuti firmato nel luglio 2015, denaro per altro necessario nel quadro del ripagamento di circa 3,5 miliardi di euro di debiti in scadenza questa estate. Dopo settimane di trattative che hanno coinvolto l’Eurogruppo, la Grecia e il Fondo Monetario Internazionale, è stata indetta una riunione d’emergenza per lunedì 9 maggio, mentre nel frattempo le dichiarazioni dei diversi attori in campo dimostrano tristemente quanto confusa e frammentata sia la strategia (se di strategia si può parlare, perché somiglia piuttosto a una continua improvvisazione) per la crisi greca.
Le cosiddette “contingency measures” domandate dai creditori internazionali sono state definite dal presidente dell’Ecofin, il Ministro delle finanze olandese Jeroen Dijsselbloem, meccanismi automatici “basati su fattori oggettivi”. In altre parole, si tratta di una serie di dispositivi legislativi per la riduzione della spesa pubblica che scatterebbero se la Grecia non riuscisse a garantire da sé il surplus primario del 3.5%.
La ragione di questa richiesta è semplice quanto sconfortante: questi obiettivi macroeconomici sono impossibili da rispettare. In sei anni il PIL si è contratto di quasi il 30 percento, il tasso di disoccupazione è più che raddoppiato toccando quota 25% (quello giovanile si attesta intorno al 50%) e il rapporto debito-PIL è esploso, passando dal 126% del 2009 al 177% del 2015. Non solo, in questo stesso arco di tempo gli investimenti – ossia il motore dell’economia che le politiche dell’eurozona e le condizioni imposte dai creditori in questi anni per lo sblocco degli aiuti si proponevano di riavviare – sono crollati del 60%.
Dall’altra parte, il governo greco – politicamente indebolito dopo l’impopolare firma del terzo programma di aiuti con condizioni capestro – si trova nella delicata posizione di non poter introdurre altre riforme di tagli e aumenti salariali in un Paese segnato da otto anni di recessione. Ecco perché, di fronte alla ritrosia di Tsipras e Tsakalotos, si è iniziato a discutere di “misure d’emergenza” per rastrellare le risorse che la politica non riesce a racimolare.
Automatismi tecnici, meccanici, per rifiutarsi di riconoscere che questi programmi di aiuti non funzionano. Dal 2010 l’Eurogruppo, principale creditore della Grecia (oltre due terzi del debito greco sono detenuti da governi dell’eurozona, dal Fondo salva-Stati e dal Fondo europeo di stabilità finanziaria), non ha saputo rispondere alla crisi finanziaria greca se non attraverso prestiti condizionati all’adozione di misure sempre più draconiane.
Dopo i programmi di salvataggio del 2010 (110 miliardi di euro in prestiti) e del 2011 (109 miliardi di euro in prestiti), nel luglio 2015 è stato firmato il terzo programma di aiuti per un totale di 86 miliardi di euro su tre anni. Come Q Code Mag ha già raccontato in passato, la contabilità di questi 86 miliardi è piuttosto fuorviante: 36 miliardi di euro saranno forniti dell’Eurogruppo e 50 miliardi di euro dalla privatizzazione di asset pubblici greci (quindi dalla Grecia stessa) di cui 25 serviranno a rimborsare l’Eurogruppo per i miliardi mobilitati.
Nessun regalo, nessun favore è stato fatto alla Grecia, perché i programmi di salvataggio sono programmi di prestiti, non di doni. Tuttavia, in un’unione che prima che economico-monetaria dovrebbe essere politica, i prestiti dovrebbero mettere in grado il contraente di mettersi in condizione tale potere onorare i propri debiti e, cosa più importante, reindirizzarsi su un sentiero di crescita. Al terzo programma di salvataggio si può affermare oltre ragionevole dubbio che non è stato così.
Innanzitutto, i dati macroeconomici sopracitati chiaramente dimostrano come le ricette dell’austerità non abbiano funzionato. Le condizioni imposte per l’erogazione dei prestiti non sono servite a rendere la Grecia un Paese né più efficiente né più competitivo. E chi obietta dicendo che nel 2014, prima della vittoria elettorale di Syriza, l’economia si stava riprendendo, fonda la sua affermazione su un tasso di crescita dello 0,6% dopo 5 anni di feroce recessione.
Decisamente debole come argomento per giustificare un proseguimento della linea di austerità e di totale ripagamento dei debiti; perché nonostante il 2015 sia stato un anno di forte instabilità per la Grecia per il braccio di ferro che ha contrapposto il governo Tsipras ai creditori europei, ciò non deve sminuire l’importanza delle critiche che il Programma di Salonicco sollevava contro questa stessa linea.
In secondo luogo, come ha spiegato un recente studio della European School of Management and Technology di Berlino, soltanto il 5% dei prestiti erogati dai primi due programmi di salvataggio (poco meno di 11 miliardi su un totale di 219) è servito al budget pubblico greco per attività di rilancio dell’economia, 37 miliardi sono stati utilizzati per ricapitalizzare le banche e 30 miliardi per misure di “incentivo agli investimenti” (con scarsissimi successi considerati i dati macroeconomici). Quasi il 65% (140 miliardi di euro) è stato utilizzato per il ripagamento dei debiti e degli interessi su questi.
Ciò significa che, alla luce anche della struttura del terzo programma di salvataggio, questi prestiti di aiuto stanno riducendo la Grecia a un’economia “debito-centrica”, in cui non solo il ripagamento dei debiti è la priorità, ma in cui addirittura i debiti stessi sono finalizzati all’estinzione di debiti precedenti, in una spirale cumulativa che la debolezza strutturale greca non può sostenere, ma solo peggiorare.
L’unica voce levatasi per sollevare dubbi sulla sostenibilità di tutto ciò è quella del Fondo Monetario, da sempre attore piuttosto riluttante di questa saga, coinvolto nella crisi greca da una Germania in cerca di garanzie, nutre forti perplessità sulla possibilità che la Grecia possa raggiungere gli obiettivi di bilancio previsti dagli accordi di salvataggio, definiti “irrealistici” dalla stessa Direttrice Christine Lagarde, la quale in una lettera pubblicata nella notte tra il 6 e il 7 maggio invitava l’Eurogruppo a prendere in considerazione la possibilità di una parziale cancellazione del debito, condizione preliminare perché anche il Fondo (esposto per circa 30 miliardi di euro) faccia lo stesso.
Questa richiesta è stata ripetutamente avanzata dal Fondo nel corso degli anni, ma ha sempre incontrato forti resistenze non solo dalla Germania, ma anche da Paesi Bassi, Finlandia e diversi Paesi membri dell’Europa dell’Est. Un rifiuto motivato dalla volontà di non creare un precedente e mantenere una linea dominata dall’obiettivo unico della disciplina fiscale, il cui ripensamento porterebbe a cambiamenti profondi della politica europea che in questi tempi di crisi nessuno pare avere il coraggio né la visione di portare avanti.
Il 9 maggio sarà l’ennesima puntata di una storia di ostinata miopia, perché nessuna misura di emergenza, nessun obiettivo di disciplina fiscale potranno risollevare l’economia greca e permetterle di crescere, creare occupazione e ripagare i debiti. Ma ci si potrà sempre nascondere dietro l’inadeguatezza delle autorità greche, ignorando le cause della crisi del Paese (che vanno ben oltre la storia di facile comprensione sulla spesa pubblica scellerata) e il fatto che nei cinque anni prima di Syriza la diligente adozione delle riforme strutturali non abbia portato alcun miglioramento. Nascondendo la polvere sotto il tappeto fino alla prossima riunione di emergenza.
(Questo articolo riflette
il punto di vista dell’autrice,
espresso a titolo personale)