e al tempo necessario per renderla diversa
di Massimo Conte
La foto mi è arrivata via whatsapp qualche giorno fa, ma ho dovuto pensarci a lungo prima di decidermi a scriverne. Rappresenta lo screenshot di una pagina di Facebook, una delle tante che con il nome “La Cruda Realidad” raccontano il peggio della cronaca nera centro e latinoamericana.Nel post che accompagna la foto c’è scritto, tutto in maiuscolo: “pandillero en estado de putrefacción”.
Le immagini sono forti. C’è un corpo, con un paio di bermuda al ginocchio stretti alla vita da un cintura con la fibbia in acciaio e una maglietta sollevata a lasciare scoperto il tronco. Tutto, tranne la fibbia, ha lo stesso colore della terra che ha intorno. La posizione è scomposta, le gambe sono divaricate, la testa è piegata. Il volto è sparito, non ci sono gli occhi, non c’è il naso, non ci sono più le labbra e le guance. Ci sono i denti in evidenza, avorio bianco che stacca dal buco nero della bocca. Mi colpisce la pancia, con delle strane impronte, quasi delle cicatrici verticali, e l’ombelico tagliato in due. Mi colpisce il grande buco che c’è nel petto, un buco enorme e circolare.
Quando sono andato a cercare la pagina su Facebook, nei commenti al post che ho trovato uno ipotizza che il buco c’è perché gli hanno portato via gli organi. Gli altri commenti sono per la maggioranza di gente che è contenta, che spera che tanti altri facciano la stessa fine.
Il corpo nella foto è, molto probabilmente, quello di Israel Baltasar Diaz Minero, conosciuto come Terremoto. Israel era un membro della 18, una delle gang salvadoregne presenti anche a Milano.
Da noi è stato a lungo un capo, considerato dagli investigatori come una delle persone più violente e pericolose arrivate dal Salvador. Qualche anno fa era scappato dall’Italia, temendo di essere ricercato dalla polizia per un ferimento. Rientrato in Salvador aveva ripreso i contatti con la gang e fatto carriera in uno dei gruppi della sua città, Zacatecoluca.
Qualche settimana fa un comune conoscente mi aveva contattato perché la famiglia ne voleva denunciare la scomparsa: una mattina tre macchine, una con le insegne della polizia salvadoregna, si erano presentate alla porta di casa sua e lo avevano portato via. Da quel momento nessuno ha più avuto sue notizie. Il mio amico in un messaggio mi dice che in Salvador se, dopo dieci minuti da quando ti hanno portato via, non si sa dove sei finito, allora vuol dire che bisogna solo cercare dove piangerti.
Un giornalista salvadoregno con cui sono in contatto ha provato a verificare il racconto della famiglia, ma non è risultata nessuna attività ufficiale di polizia nella zona di Zacatecoluca dove viveva Israel.
In Salvador la situazione è molto difficile. Di fatto le persone continuano a morire. Succede quotidianamente. Far parte di una gang significa essere sempre un morto che cammina. Se non ti ammazzano i rivali, lo fanno gli squadroni della morte, le forze speciali, le forze di polizia, i tuoi stessi amici.
Stiamo parlando di persone che hanno fatto e fanno cose orribili, inserite in quel terribile meccanismo per cui non si capisce mai fino a che punto continuare a vedere la vittima che si nasconde dietro il carnefice.
Il mio amico, quello che mi ha raccontato della sparizione di Israel e che mi ha mandato le foto del suo corpo, mi ha scritto un altro messaggio, sempre su WhatsApp: “Adesso mi fa più paura questa situazione”.
Lui è il vero soggetto della mia storia. Il mio amico è entrato nella 18 quando era poco più che un bambino, ci ha vissuto tutta la vita. È arrivato in Italia per sfuggire alla morte, ma non è riuscito a liberarsi delle sue appartenenze e non è riuscito a sottrarsi alle dinamiche malate dei mondi in cui è cresciuto.
La prima volta che me lo sono trovato di fronte il suo soprannome per me era quello di un fantasma che non avevo mai incontrato, ma che tutti mi raccontavano essere un capo ed essere pericoloso. La prima volta che l’ho incontrato è perché era venuto a cercarmi per chiedere aiuto perché aveva paura.
La paura è uno strepitoso strumento di cambiamento, spinge a compiere scelte che altrimenti non ci si sente in grado di fare, per le quali non si trovano le giuste e necessarie motivazioni. La paura riesce a rinnovare le vite a patto che di fronte a sé abbia una via d’uscita, a patto di poter diventare progetto, diventare alternativa. La paura che non può trasformarsi in speranza diventa, molto più facilmente, disperazione.
Ecco, il mio amico è in questa situazione, di fronte a questo bivio. Tra poco dovrà rientrare in carcere, per l’ennesima volta, per scontare una pena definitiva per rapina, l’ultima eredità di una vita che sta provando a mettersi alle spalle. Dopo per lui potrebbe esserci un decreto di espulsione per pericolosità sociale.Le nostre autorità hanno scelto da tempo di difendere la nostra società rimandando indietro le persone che sono giudicate pericolose. Hanno, a volte, molte ragioni e molte buone intenzioni.
In questi giorni, però, non posso non pensare ai tanti ragazzi (ormai diventati uomini) che ho incontrato in anni di lavoro sulle gang. Alcuni oggi sono cambiati, a volte anche grazie al fatto che una condanna li ha fermati e li ha costretti a rivedere il film della propria vita. Di certo, però, non sono più quelli di prima. Altri non sono cambiati, hanno solo accumulato più rabbia.
Quello che mi chiedo, però, è cosa voglia farsene la nostra società dei cattivi, di quelli che lo sono stati e di quelli che lo sono. Quello che so è che per una parte di loro oggi l’espulsione è una sentenza di morte, sostanziale, non formale.
Il mio amico, per esempio, sa benissimo che una volta messo su un aereo per il Salvador lui avrà le ore contate. La lista dei suoi potenziali esecutori è talmente lunga che a sorprenderlo sarà scoprire chi tirerà il grilletto, non che qualcuno lo faccia.
Ecco, la questione suona così. L’espulsione è già una doppia pena, per alcune delle persone che ho conosciuto in questi anni diventa una doppia pena capitale. Personalmente non lo ritengo accettabile e ritengo che non sia accettabile fare finta che non sia così. Personalmente ritengo che anche i cattivi, quelli che lo sono stati e quelli che lo sono, abbiano il diritto alla propria vita e al tempo necessario per renderla diversa.
Lo penso in generale, ancora di più per il mio amico perché so quanta fatica e quanto dolore c’è in ogni suo contraddittorio tentativo di misurare la paura e darsi un po’ di speranza.