tratto da Frontiere News
Jennifer e i suoi fratelli hanno visto più cose nella loro breve vita rispetto a quante ne vivranno la maggior parte degli adulti in un’esistenza intera: un conflitto armato, la migrazione forzata, i campi profughi. Eppure mancava la neve. Vestiti con degli ingombranti cappotti invernali che hanno ricevuto all’aeroporto, i bambini fanno le capriole nel cortile innevato dietro al centro di reinsediamento Margaret Chisholm, nella periferia di Calgary. Il loro padre, Fabian, li osserva con un mix di divertimento, incertezza e sollievo. Dopo aver abbandonato il Burundi un decennio fa – per trascorrere anni in un campo profughi della Tanzania – la sua famiglia ha finalmente trovato una sorta di rifugio, un luogo dove forse un giorno potranno sentirsia casa. Un nuovo capitolo sta iniziando nella vita di questa famiglia di rifugiati.
Fabian e i bimbi sono tra i protagonisti di 19 days, un documentario sull’insediamento dei rifugiati in Canada prodotto dal Northwest Studio della NFB.
Il film è l’ultimo lavoro di Asha e Roda Siad (nella foto sotto), due sorelle giornaliste somalo-canadesi che i lettori di Frontiere hanno potuto apprezzare grazie a Living the border, un documentario interattivo sui migranti africani in Italia che ha vinto il Media Award 2014 di Amnesty International Canada. “Sentiamo un forte legame con i nostri soggetti e le loro storie”, spiega Roda. “La nostra famiglia è venuta in Canada come rifugiata, per cui siamo sempre stati interessati alle storie di migrazione. La nostra esperienza personale ha reso più facile per noi per stabilire un rapporto di fiducia con i residenti del centro e capire i loro punti di vista”.
Asha, che lavora anche come giornalista, è entrata per la prima volta nel Margaret Chisholm Center mentre confezionava un servizio per Shaw TV. “Sembra un normale residenza suburbana, ma ci sono costantemente 70 persone che vi transitano: i rifugiati appena arrivati passano attraverso un programma di orientamento di 19 giorni e poi vanno via. Abbiamo pensato che un breve documentario avrebbe potuto dare al pubblico una più profonda comprensione del complesso processo di reinsediamento. Abbiamo voluto catturare più racconti e nel film sono presenti rifugiati provenienti da Sudan, Siria, Burundi e altri paesi. L’esperienza dei rifugiati non può essere ridotto ad una semplice storia”.
La pellicola esce in un momento in cui il mondo sta affrontando una crisi migratoria senza precedenti.
Secondo un recente rapporto dell’Agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR),in tutto il mondo ci sono attualmente circa 60 milioni di persone che sono state sfollate da conflitti armati e persecuzioni, più che in qualsiasi altro momento della storia.
“Asha e Roda hanno fatto un film importante e tempestivo”, dice il produttore David Christensen. “Portano enorme empatia e intelligenza al progetto. E’ un film sorprendente e bello, che fornisce una nuova luce sul ruolo che il Canada può svolgere per affrontare la crisi globale dei profughi. I documentari brevi possono essere di forte impatto e riescono a raccontare una storia grande e necessaria con economia”. Le immagini sono state girate per più di due settimane a marzo e si focalizza sull’esperienza degli ospiti del Centro, i cui ultimi arrivati vengono da Siria, Nepal, Burundi, Sudan, Colombia. La fotografia è stata affidata a Patrick Mclaughlin, nome noto del panorama documentaristico canadese.
“Nei nostri progetti precedenti ci siamo occupati di tutti gli aspetti della produzione”, dice Roda, “quindi è stato bello avere un direttore della fotografia d’esperienza in squadra per questo film. Siamo stati in grado di concentrarci totalmente sui nostri soggetti e le loro storie e di concepire l’aspetto visuale che volevamo”. La scelta di rinunciare a un narratore permette ad Asha e Roda di far parlare per sé il documentario, che racconta la vita quotidiana nel centro (le consulenze d’insediamento, i laboratori negli alloggi, l’assistenza sanitaria) lasciando spazio per quei dettagli esterni che inaspettatamente rivelano quelle forze che continuano a condizionare le vite dei rifugiati.
È il caso di Mustafa, un giovane padre dal Darfur, che prova disperatamente di raggiungere i parenti lontani via telefono. “Abbiamo scoperto che non parlava con loro da quasi quattro anni”, spiega Asha. “Il suono del telefono che squilla nell’attesa vana che qualcuno risponda dall’altra parte del mondo è pieno di significato. Racchiude tutto il nostro film. I rifugiati che raggiungono il Canada sono fortunati, ma è difficile sentirsi appagati quando hai lasciato così tanto alle spalle”. 19 days uscirà in questa primavera.