di Matteo Pioppi
L’anno scorso, il 26 settembre, ero a Ferrara al concerto in memoria di Federico Aldrovandi. Ad un certo punto sul palco sono comparsi Valerio Mastandrea a Giorgio Canali: lettura musicata di Gola, un testo di Mattia Torre. Brano meraviglioso che descrive, con toni tragici e ironici, il complesso rapporto che abbiamo noi esseri umani con il cibo.
Tornato a casa, pochi giorni dopo andati alla Libreria Modo Infoshop di Bologna e ordinai “In mezzo al mare. Cinque atti comici” (Dalai, 2012) in cui appunto è contenuto “Gola”.
Un piccolo brano prezioso, un generatore di riflessioni sull’alimentazione e non solo, un propellente, un detonatore di progressioni mentali.
La ritualità famigliare legata ai miti alimentari della tradizione e alla vanità nel nutristi fino all’accesso, mi sono sempre stati estranei e, se vissuti, propulsori di inesauribili momenti di noia, vissuti come una perdita di tempo: il tempo che perdevo in quegli istanti mi sembrava di non riuscire più a recuperarlo.
La centralità del cibo nella nostra vita nasce in seguito alla gestione del nutrirsi come estremo atto di socialità, il rito laico per rompere ogni tipologia di ghiaccio relazionale tra sconosciuti.
Nella società odierna emerge sempre di più un attaccamento quasi morboso al cibo. In primis il diffondersi di programmi televisivi di cucina (ormai ogni rete televisiva ne ha un paio); programmi “on the road” nei quali viene affrontata la tematica del cibo di strada; i talent per cuochi, nei quali si incanala tutta l’energia e la determinazione delle persone nel cucinare per vincere materialmente qualcosa. Altri programmi, invece, spesso a ridosso dei pasti, riportano in auge le cucine regionali. Il taglio a queste ultime trasmissioni è ideato per le famiglie: molto meno selettivo ed, essendo all’ora dei pasti, molto più invadente. Vi sono poi tutte le prese di posizioni culinarie e la messa in bella mostra, quasi il vanto, del luogo comune: il cibo di “su” il cibo di “giù”, tutta un’esaltazione in chiave regionalista della propria terra. Anche qui, il testo di Torre, dissacra a martellate la sacralità con la quale molti esaltano i prodotti tipici:
e anche questa fissazione della provenienza, come se cambiasse qualcosa,
– lo vuoi un mandarino?
– no, grazie
– guarda che è di Salerno
– eh sticazzi – verrebbe da dire […]
– la vuoi la polenta?
– no, grazie
– ma è di su
…le cose di giù le cose di su, è tutto un incubo, è tutto un incubo, che il cibo non è più nutrimento ma obiettivo, scopo, chiave di lettura, metro del mondo.
Come molti al giorno d’oggi, anche questi programmi creano una narrazione sul cibo. Si cerca insomma di creare una comunicazione diversificata dandole una dimensione urgente e necessaria.
Ovviamente è una narrazione che si adatta al tipo di pubblico e al format che si vuole proporre, rimanendo però all’incirca la stessa per tutti, ripetendosi, riciclandosi e adattandosi alle circostanze.
Un esempio che si discosta molto, ma sempre di narrazioni stiamo parlando, è quando l’alimento viene narrato e spiegato tramite la creazione di un immaginario comune: come viene coltivato, come viene colto, come viene lavorato. Tutto questo assume un aspetto nuovo che mantiene un certo legame alla ruralità del territorio, come se quest’ultima avesse di default aspetti positivi to court.
La continua mitizzazione della civiltà rurale e contadina, della vita che facevano i nostri nonni tra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta, è indice di una forte mancanza di strumenti per sondare l’odierno e di una certa esaltazione della povertà che ricorda molto da vicino la dottrina cattolica.
Se consideriamo la nostra poca dimestichezza con la natura, questo esempio di narrazione serve solamente a dare una plastificazione dei nuovi orizzonti percorribili e di nuove identità nelle quali riconoscersi e reinventarsi. Penso ad esempio all’impero creato da Farinetti, dai cultori del cibo bio e, dall’altra parte, da esperienze più di nicchia a autonome che però, pur nel loro piccolo, ricreano le stesse dinamiche. Insomma, parlando più semplicemente, le tecniche con le quali si crea la narrazione sono le stesse per tutti, cambiano solo (e di poco) i contenuti. Ma il medium (mezzo) è il messaggio, diceva McLuhan (ce lo scordiamo troppo spesso), quindi va bene lavorare sul contenuto, ma se viene sempre raccontato tramite lo stesso modello (il mezzo) da tutti, quello che emerge è solamente un appiattimento generale.
La narrazione sul cibo, in definitiva, limita tutto il resto: con la pancia piena non si pensa più, si ha solo la forza di digerire. Lo diceva Céline quando derideva politici e borghesi, e in un certo modo, lo afferma anche Mattia Torre in Gola:
Perché a noi le cose che ci logorano non sono gli attentati, la mafia, i servizi deviati. A noi ci logora addentare un fiore di zucca fritto e non trovarci l’acciuga. Ecco una cosa che hai voglia proprio di andare spedito in armeria e sparare a cazzo di cane sui passanti.
[…] Eccolo questo paese [tenuto insieme] da una complicata, goffa e imbarazzante digestione. Che quando digerisci una sola cosa te ne sbatti, fai si con la testa, con il cuore, te ne sbatti. Fate come vi pare eh, fate tutto quello che vi pare: trascurateci, ignorateci, usateci, alienateci, impoveriteci, invecchiateci ma lasciateci mangiare e noi ce ne staremo buoni, buoni buoni, per sempre.
Un’altra, l’ultima, caratteristica del contemporaneo è la produzione di immagini legate al cibo. Le fotografie personali di pietanze che si cucinano o che si ordinano al ristorante, da alcuni anni sono ormai diventate un grande classico dei social network. Una vera ondata di fatti vostri che socializzate con tanto di aggiunta di commenti violenti e prese di posizioni rabbiose contro i gusti alimentari altrui: nessuno che è più in grado di rispettare le scelte personali di chi ha gusti diversi dai propri. La rabbia viene incanalata lì, in sterili diatribe tra carnivori, vegetariani e vegani… invece che in furenti gesti di rabbia verso le contraddizioni che questo momento storico sta apportando, disinteressato, alle nostre vite.
Mi sembra che in definitiva il cibo stia diventando un’ossessione per molti, questo bisogno di alimentarsi all’infinito: lo strutto, il fritto, il burro, l’olio, il grasso, il formaggio, lo stracotto ecc ecc, tutto rigorosamente industriale o bio o a chilometro zero, non fa alcuna differenza perché non fa altro che portare all’accesso la nostra incapacità di reagire alle situazioni.
Il cibo sta diventando un’arma di distrazione di massa. Viviamo domani, veniamo resi innocui avendo come unico obiettivo l’accesso ai social network per documentare e socializzare il nostro eccesso o per portare il livello politico di scontro ad una sterile diatriba tra filiera corta o filiera lunga.