La vita è troppo lunga per…

Dal lavoro in un bar da bambino all’impiego in una delle più grandi aziende mondiale di bevande. Alfio Moriconi racconta
la sua vita avventurosa, fatta di scelte controcorrente,
piccoli piaceri e una grande passione per il vino

testo e foto di Cristina Zuppa

Forte dei Marmi, fine estate. Mi viene incontro in bicicletta, Alfio, sorride. Più tardi, quando per fare una foto gli chiedo di mostrarmi la sua, fra le bici parcheggiate nel giardino, ridendo risponde: “la mia? La mia è quella che resta quando tutti sono usciti”. “Tutti” sono la moglie, i figli, i nipotini, qualche ospite di passaggio: “gli amici, se sanno che sono qui, passano a trovarmi, si fermano a cena, mi portano del vino; c’è sempre un gran via vai di persone”.

La piccola Giada mi vede scattare foto al nonno. “Ma vanno sul giornale queste? Quindi nonno diventa famoso?”. Sorrido: è già famoso, nonno.

Alfio Moriconi, classe 1936, aria simpatica e sorriso schietto, è stato per gli ultimi 12 anni Vice Presidente del settore importazioni e vendite europee della Total Wine & More, la più grande compagnia americana privata per la vendita di vini e liquori, con ben 120 negozi in una ventina di Stati.

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Ma come ci è arrivato alla Total Wine, Alfio, da Forte dei Marmi?

“Sono nato in questa casa. Erano solo due stanze allora, neanche il bagno c’era. Il bagno era la campagna tutta intorno. Mi mancava il bagno? No, non sapevo neanche cosa fosse un bagno. Se una cosa non la conosci, come fa a mancarti? Ricordo la guerra come fosse ieri, i morti, le bombe; facevo la staffetta per la resistenza, a nove anni. Mi ficcavano un bigliettino nei pantaloncini, e via di corsa. Arrivavo dove dovevo, sfilavano il bigliettino, fatto. Poco più di un gioco, per me. Ho fatto solo quattro anni di elementari, per via della guerra. A dodici anni già lavoravo. Guadagnavo 250 lire al giorno lavorando per 10 ore in un bar dove la Coca Cola la vendevano a 100 lire la bottiglia. Quindi con due Coca Cola e mezzo potevano fare i nostri stipendi! Fondamentale è stata la scuola alberghiera di Viareggio, per me. Ho imparato moltissimo in quella scuola, moltissimo. In realtà non avrei potuto frequentarla, perché non avevo il titolo di studio per iscrivermi. È stato un po’ un caso…”.

Tutta la vita di Alfio Moriconi si snoda, a sentire lui, fra “casualità” varie. Che a ben vedere però non sono mai veramente tali: è stata piuttosto una straordinaria costante vitalità a condurlo negli anni fra viaggi, incontri, rapporti importanti; una inesauribile curiosità per la vita e le persone, guidato da un’unica priorità: seguire le proprie passioni.

_DSC1253“Quando avevo 15 o 16 anni, nel bar ristorante in cui lavoravo c’era un cliente fisso, che mi vedeva mentre apparecchiavo, sparecchiavo, servivo. Un giorno mi disse, tu devi andare alla scuola alberghiera. Io non sapevo di cosa stesse parlando, le scuole alberghiere non le avevo mai neanche sentite nominare. Quell’uomo era Danilo Pandolfi, direttore della scuola di Viareggio, presso l’Hotel Marchionni. Ma io a quella scuola non potevo iscrivermi, mi mancava il titolo di studio necessario. Allora Danilo Pandolfi mi disse di passare presso l’hotel un mercoledì, a mezzogiorno, non un minuto prima, non un minuto dopo, e di chiedere l’iscrizione. Mi sarei sentito rispondere che non era possibile, perché quel mercoledì a quell’ora il segretario era assente, che sarei dovuto ripassare il giorno seguente. Tu non te ne andare, temporeggia, mi disse, e a quel punto arrivo io. Così fu, andai, mi dissero di ritornare un altro giorno, e in quel momento nella hall dell’hotel apparve il sig. Pandolfi, che chiese cosa succedeva. Direttore, gli risposero c’è questo ragazzo che vuole iscriversi ma non può, ché il segretario è assente. Me ne occupo io, disse il direttore. E così fu che io mi ritrovai iscritto alla scuola alberghiera. Con Danilo Pandolfi poi siamo rimasti amici per tutta la vita, a lui devo tanto, quella scuola mi ha insegnato tutto.

Imparavo molto soprattutto guardando, osservando gli altri. Vedevo che mentre io lavavo i piatti, e guadagnavo poco, chi conosceva un pochino le lingue passava a fare il cameriere, il Maitre d’Hotel, e guadagnava molto di più. Allora mi sono detto, è semplice, devo imparare le lingue! E sono andato all’estero. Sono andato a Parigi, ho cominciato da lavapiatti, poi appena ho imparato un po’ di francese, cameriere; poi sono andato in Inghilterra e ho fatto la stessa cosa, poi Berlino, Stoccarda. Se ora parlo molte lingue? Non ne parlo nessuna, ne massacro cinque! – ride, ridiamo. Le lingue non le ho mai studiate, le ho imparate così, a orecchio. All’estero piano piano ho fatto sempre più carriera, fino ad essere direttore di un hotel. Avevo acquisito una grande esperienza, ed ero diventato bravo nel mio lavoro, ero molto ricercato. Ma non ho mai avuto l’obiettivo di diventare ricco e basta. Sì, volevo guadagnare bene, ma tenevo molto anche al mio tempo libero.

Facevo in modo di lavorare otto nove mesi l’anno, e due o tre mesi li tenevo per me, per dedicarmi a quella che stava diventando una piccola passione, il vino. Mi piaceva il vino, e volevo conoscere tutto della sua produzione.

Così le mie vacanze le passavo nelle aziende vinicole, pulivo le cantine, sistemavo le bottiglie, assistevo alla vendemmia, l’assemblage. Aiutavo e osservavo, e imparavo. Via via la mia posizione nel settore alberghiero e della ristorazione diventava sempre più solida, ed ero molto ricercato ovunque. A quel punto erano le aziende vinicole ad invitarmi, le più famose, e così ho avuto l’occasione di conoscere proprietari, enologi, capi delle cantine; e con loro perfezionare le mie conoscenze. Per cinque o sei anni ho fatto così, ed ho imparato tutto del vino. Era la mia passione. A quel punto avevo un piccolo sogno, tornare in Italia e aprire un relais di campagna. Le aziende in Toscana a quell’epoca, erano i primi anni ’60, le svendevano, la gente andava a vivere in città e voleva liberarsi delle proprietà di campagna. Si potevano fare prestiti vantaggiosissimi, era proprio il momento adatto per iniziare un’attività. Ma prima di mettermi in proprio volevo conoscere meglio anche la realtà del settore turistico negli Stati Uniti. Nel 1962, avevo 26 anni, presi un biglietto e andai negli Stati Uniti.

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Mentre mi trovavo negli Stati Uniti un giorno sentii parlare di un wine tasting che si sarebbe tenuto nella città in cui vivevo. Non avevo idea di cosa fosse. Per me il vino era un cibo, un prodotto della tavola, come la frutta, il pane. Negli Stati Uniti invece è arrivata quella “fantasia” del vino. Quando sono arrivato io s’è cominciato a parlare di wine tasting. E cosa sarebbe un wine tasting? S’è mai sentito di un assaggio di patate, o di pane? E allora mi sono incuriosito, e sono andato a vedere. E lì mi sono reso conto che tutta questa gente parlava di vino, ma io il vino lo conoscevo davvero, molto meglio di loro. E allora il dilemma: tornare in Italia per aprire un relais di campagna, come avevo stabilito, o restare negli Stati Uniti e seguire questa passione per il vino? Avevo già visto delle proprietà da acquistare, mi ero anche già informato sui prestiti dalle banche. Sembrava la scelta più sensata, la più sicura. E invece alla fine ho deciso di seguire la passione, di fare del mio hobby un lavoro. Tempo sei mesi avevo il mio primo lavoro nel campo del vino. Un lavoro fantastico, che non è mai finito.

Nel primo lavoro dovevo selezionare vini per un’azienda, la Calvert Liquor, che li vendeva al dettaglio. Dopo qualche anno ho avviato la mia attività, la Wines Limited LLC. Non ho mai voluto un’azienda troppo grande, non volevo che il lavoro occupasse tutto il mio tempo, eravamo solo due soci e cinque impiegati.

Quando la mia prima figlia aveva sei mesi la Seagrams – la numero uno nel mondo nel campo dei liquori, un gigante – mi voleva reclutare per fare il PR sui vini. Mi offrivano 100.000 dollari all’anno quando io ne guadagnavo 15.000, e accettai. Ma poi tornato a casa mi resi conto che per questo lavoro avrei dovuto viaggiare, stare lontano da mia figlia per quattro giorni la settimana. Guardo la casa, e vedo che sta in piedi. Debiti non ce ne sono. Apro il frigorifero, ed il cibo c’è. E allora ho rinunciato. Mi chiamò uno dei padroni, un Bronfman, per capire se facevo sul serio, era assurdo rifiutare un posto così. Gli dissi che sì, volevo stare con mia figlia, mi piaceva metterla a letto, cambiarle il pannolino.

Quando ho compiuto 65 anni ho venduto l’azienda, i miei figli non erano interessati a continuare l’attività. Pensavo di godermi la pensione, ma subito mi è arrivata l’offerta di questo colosso, la Total Wine and More. Avevano sentito che ero libero e volevano che mi occupassi della selezione di vini francesi, spagnoli, italiani e portoghesi. Dovevo scegliere un certo numero di vini di produttori indipendenti da proporre in vendita nei loro negozio sotto l’etichetta “Alfio Moriconi Selection”. Io avevo già moltissimi contatti e conoscenze, non dovevo fare un grande sforzo per fare questa selezione. Sapevo già dove andare, a chi rivolgermi. Dovevo solo viaggiare, incontrare gente, pranzare, bere vini, chiacchierare. Una vacanza! Ho accettato, e questo è stato il mio lavoro per altri 12 anni.

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Siamo abituati a fare l’equazione vino costoso uguale vino buono. Ma non è sempre vero. Ci sono vigneti non appartenenti ad aziende famose, per esempio, che sono accanto a quelli di aziende famose, e che producono la stessa qualità di vino. O ci sono vini dei quali paghi la scarsità. Il Pomerol, per esempio, il massimo di qualità che paghi è 50 euro, dopo paghi altro, la scarsità, appunto. Mi trovavo spesso in questa situazione, mi chiedevano un consiglio su un vino da regalare, magari una segretaria che voleva fare un regalo al suo capo. Io nominavo un vino che fosse buono e che non costasse molto. No, mi dicevano, ne voglio uno migliore. Insistevo, questo è ottimo. No, migliore. Allora capivo che “migliore” voleva in realtà dire “più caro”. Alla fine mi arrendevo, chiedevo: quanto vuoi spendere. E consigliavo la stessa qualità di vino, ma una bottiglia più cara. Ci provavo ad essere umano, ma non funzionava mai”.

I figli sono cresciuti negli Stati Uniti, ma la prima figlia, Sabrina, ha scelto di andare a vivere in Europa.

“Aveva finito l’università, a New York, e aveva anche trovato un ottimo lavoro negli Stati Uniti, ma dopo sei mesi mi ha chiamato un giorno, e mi ha detto: Babbo, io preferisco stare in Europa. Mi dispiaceva, ovviamente, averla lontana, ma le ho detto per carità, la vita è troppo lunga per fare una cosa che non piace!”.

Proprio così. Siamo abituati a sentire la frase dalla prospettiva opposta: la vita è troppo breve per… Troppo breve per non fare ciò che piace. E per quanto la frase esorti a godersela, questa vita breve, sotto sotto suggerisce l’idea invece che sia un po’ cicala chi davvero se la gode. E che sia brava la formica, responsabilmente incline al sacrificio, a sopportare le dovute sofferenze: un dolore tutto sommato di piccola durata, nel breve tempo dell’esistenza. E invece no, dice Alfio, la vita è lunga. Troppo lunga per non vivere come vogliamo. E penso che se tutti la visualizzassimo in questi termini, se pensassimo a quanto pesante possa essere una intera vita condotta controvoglia, forse saremmo più solleciti a rifiutare ciò che non va bene per noi, a interrompere relazioni sbagliate, lasciare lavori inadatti. E penso che la genialità di un uomo si veda anche in questo, nella capacità di ribaltare prospettive e restituire senso alle cose. Progetti futuri, Alfio?

“Mi godo la pensione. Ho già avuto un paio di offerte di lavoro, ma non penso di accettare. Chi può dirlo, se mi mancherà il vino forse sì, ma al momento direi di no, ci sono tante altre cose che mi piace fare. Ho tre nipotini, mi piace viaggiare, il giardinaggio, la bicicletta, andare ai musei, a teatro. Mi piace anche tanto camminare, ogni tanto prendo e lungomare arrivo a Viareggio, sono 9 chilometri. Mi fermo, pranzo in un ristorantino, poi lentamente torno a casa. Il vino… il vino continuerò a berlo.