e a poche settimane dalle elezioni comunali, reportage
dalla periferia romana, tra occupazioni e street art
testo e foto di Ilaria De Bonis
«Oggi sono andato a Tor Sapienza. Voglio tirare fuori i romani da questa situazione insopportabile. La colpa è di chi non l’ha voluto fare finora», avverte il candidato sindaco Alfio Marchini con un post su Facebook. Dopo neanche un mese il suo competitor Bobo Giachetti (la faccia più ‘sociale’ del Pd romano) annuncia: «Non sono venuto a Tor Sapienza per fare delle promesse ma bisognerà capire come riprogrammare la città. Ci rivedremo nei prossimi tre mesi. Se dovessi aver la fortuna, e non la sfiga, di fare il sindaco, vorrei qualcosa che possa essere una soluzione». Gli abitanti di questa periferia di Roma est tagliano corto: «Pe’ Tor Sapienza ce vorrebbe superman no un sindaco!». Luigia, 30 anni, romanissima, occupante da tre anni dell’ex parrocchia San Cirillo, che condivide con famiglie rumene e africane, difende il territorio: «Ne hanno dette di tutti i colori: che qui c’è spaccio, delinquenza, droga. Ma non è vero! I rom, sì. Questo è vero! E’ sempre più pieno di rom del campo di via Salviati». L’ex chiesetta dove Luigia vive, la diocesi l’ha ceduta ai senza tetto. Per vedere meglio che succede a Tor Sapienza in tempi di campagna elettorale, torniamo a viale Giorgio Morandi.
L’antefatto: quando c’erano i rifugiati
È una domenica mattina qualsiasi: la vita al Lory bar scorre come sempre tra gratta e vinci, caffè e scommesse. Questo è l’unico bar della strada, scenografia fissa nella vita quotidiana dei palazzoni popolari di Tor Sapienza. Due anni fa i riflettori della cronaca romana si accesero a più riprese su quel baretto: lì accanto c’era il centro d’accoglienza dei rifugiati ragazzini (i minori non accompagnati della cooperativa Un Sorriso). E gli abitanti del quartiere su quei ghanesi e libici avevano riversato rabbie e frustrazioni di una vita.
La storia s’era conclusa con la chiusura del centro a novembre 2014 per paura che gli ospiti finissero linciati. Da quel momento in poi Tor Sapienza ha tirato un sospiro di sollievo. E la politica ha tirato i remi in barca. Per far di nuovo capolino tra i palazzoni d’azzurro sbiadito solo con l’anno 2016.
A febbraio è stata la volta di Matteo Salvini in tour al campo rom di via Salviati. «Se c’è qualcuno che ha dei diritti – aveva tuonato il leghista – bisogna aiutarlo, per gli altri nessuna tolleranza». L’ex sindaco Ignazio Marino a Tor Sapienza nel 2014 c’era arrivato troppo tardi e senza soluzioni in tasca. I candidati alle prossime comunali s’attrezzano per tempo. Ma la formula magica per questa periferia d’enclave non esiste.
Quattro sono le cose che Tor Sapienza non tollera proprio: «L’immondizia fuori dai cassonetti, i roghi ‘tossici’ (prodotti dai rifiuti bruciati nei campi rom), le prostitute e i rom». È il coro che si sente ripetere ovunque si vada in questo quadrilatero di terra racchiuso tra la via Prenestina e la Torre del XIII secolo. Eppure «il quartiere popolare nacque con tutti i servizi immaginabili ieri e oggi, da quelli sanitari a quelli culturali», assicura Nicola Marcucci, che rappresenta il quartiere dal 1958. C’erano la biblioteca Rodari e la prima farmacia comunale.
Che è successo dopo? Perché le tensioni e le intolleranze? Quanto si è abusato delle forze di questo quartiere ammassando in pochi chilometri quadrati un campo rom, le case popolari, le occupazioni abusive e due centri d’accoglienza per migranti (c’è anche quello di via Staderini)?
La storia è lunga e passa per quella dell’anti-fascista Michele Testa, ferroviere molisano che fondò il primo nucleo di case negli anni Venti. Qui inizia il sogno di una Tor Sapienza bonificata, nata per essere il granaio di Roma. Poi arriva il boom economico, il quartiere operaio degli anni Sessanta. Infine la costruzione delle case popolari dell’ATER ai tempi del super welfare che assisteva i romani nei magnifici Settanta. Da borgata di casette basse Tor Sapienza è diventata l’approdo degli ultimi baraccati di Roma: lì nei palazzoni trovarono case comode e balconi. Oggi è rifugio anche per i richiedenti asilo e per chi non ha la casa e occupa qualche anfratto, nella spina centrale dei palazzi popolari, ad esempio. Ma oltre quel tunnel (dove le botteghe e i negozi di quartiere non si sono mai sviluppati), se si ha la pazienza d’aspettare e arrivare fino in fondo, si intravedono i primi murales che annunciano i segnali di fumo dell’arte.
I murales del Morandi e l’arte Carlo Gori
Uomini stilizzati affiancati a delle papere (hanno le ali ma non volano). Alberi antropomorfi, volpi e farfalle. Il volto di un uomo noto: il pittore Giorgio Morandi. Sono i graffiti di Pino Volpino, Mauro Sgarbi. Di Carlo Gori e Beetroot. Siamo all’ingresso del Centro culturale Giorgio Morandi, guidato da Carlo Gori, street artist di 48 anni, anima creativa di un intero quartiere. Che arriva fino al MAAM, il Museo dell’Altro e dell’Altrove.
«Il mio punto di vista sono le persone – ripete Carlo- neanche tanto l’arte grafica in sé. Ma tutto quello che puoi fare con la gente e per la gente». Spettacoli, danza. Attività. Laboratori. Per tornare ad immaginare. Ad usare altri canali che trasformino la rabbia.
Nicoletta Achille incanta i bambini con spettacoli di marionette e clownery proprio nella piazzetta al centro delle case popolari. Con i suoi cappelloni colorati, la mimica facciale tirata, i monologhi fantastici, parla alla pancia toccando altre corde. La gente qui ha bisogno di empatia. Di ricominciare “a sentire” e a mettersi nei panni degli altri. Solo l’arte è in grado di operare questa magia. Mentre ci racconta tutto questo, seduti su un muretto a guardare l’opera di Aladin Hussain Al Baraduni (l’accattone di Pasolini formato murales), Carlo Gori saluta Rachele, una scenografa giovane venuta a presentargli l’idea di un film su Tor Sapienza. «È l’opera prima di Roberto De Paolis e parlerà dell’amicizia tra due ragazzi, uno dei quali nato e cresciuto qui. Alle case popolari». Il regista segue da tempo la cronaca del quartiere. «Gli piace perché è una scommessa ancora aperta».
La terra dove si concentrano pezzetti di mondo separati, ognuno problematico a modo suo. Tutto condensato in pochi chilometri a ridosso della via Prenestina. «Non ci sono né vincitori né vinti a Tor Sapienza», dice pure Rachele. C’è solo la scommessa di riuscire a trovare la quadra di un’integrazione difficilissima. E un film può raccontare bene le ansie di chi non sa staccarsi da qui eppure vorrebbe dimenticarsi d’esserci nato.
Alla conversazione con Carlo e Rachele si unisce Remo, 71 anni, nato nelle baracche sotto gli archi del Mandrione: «Mio padre faceva il bigliettaio sui tram. Io gli andavo a portare il pranzo sul 3». Remo confida d’aver passato 20 anni in carcere, dopo l’arresto perché «ero delle Brigate Rosse. C’avevo già moglie e due figli ma nessuno sapeva della militanza», racconta. Oggi non si potrebbe fare la rivoluzione, dice lui, perché è cambiata la testa della gente. «Ho capito Pasolini solo dopo 40 anni: noi agivamo per riflesso condizionato dei nostri genitori», dice. A Tor Sapienza per anni Remo è stato animatore e segretario del Centro culturale Antropos.
Aladin Hussain è invece uno street artist che ha disegnato per il Morandi: «Era il mio primo murales all’aria aperta a Roma. Pensavo giorno e notte di rappresentare una periferia così isolata, e più pensavo più mi veniva in mente proprio lui, Franco Citti nel ruolo di accattone, l’anima Pasoliniana di Roma. E ha funzionato, ed io fui felicissimo, ma qualcuno non era contento; ricordo una signora molto arrabbiata che gridava: non possiamo accettare che nel nostro quartiere venga dipinto un pedofilo come Pasolini. Gridava e gridava mentre l’amico cercava di convincerla. Allora le dico: signora guardi che non è Pasolini, è Franco Citti, è Accattone! e lei si ferma imbarazzata e dice: ah non lo sapevo scusate, allora va bene! E se ne va via». Gli artisti – poeti, disegnatori, attori, cineasti – che ruotano attorno al perno del progetto Morandi a Colori di Carlo, pensano che sia proprio questa la chiave: contaminare il brutto col bello. Il bello che non è solo estetica.
Città meticcia e MAAM
Il brutto della Prenestina e di Tor Sapienza, ad esempio, sono le ex fabbriche. Qui attorno un tempo c’erano la Voxon, la Peroni, la Fiorucci. Possono diventare belle? Decisamente sì. L’architettura industriale di Tor Sapienza è viva, e si può anche trasformare in un museo: come il MAAM, Museo dell’Altro e dell’Altrove sulla via Prenestina. In mezzo allo sconforto più totale di una strada dove vedi solo capannoni industriali ed ex fabbriche. Il MAAM ha compiuto 4 anni una settimana fa. È un posto incredibile, eppure ancora semiclandestino. Carlo Gori ogni sabato organizza visite guidate alle opere e ai graffiti giganti, dentro l’ex fabbrica dei salumi Fiorucci, dove l’arte sostiene le occupazioni abitative.
Da Pasquale Altieri a Massimo Di Giovanni (autore della L.U.N.A.) al collettivo Cane Morto; Sono gli artisti prestati al Museo aperto.
Oltre all’arte c’è la città meticcia: Metropoliz. Dal marzo 2009 un gruppo di famiglie di migranti (Metropoliz) ha scelto di occupare uno spazio abbandonato, trasformarlo in casa e restituirlo al quartiere sotto forma di “opera d’arte vivente”. Da allora la convivenza tra quotidianità rom, vite andine e visioni ultra-creative è un incrocio che funziona. Sono 52 i nuclei famigliari che vivono qui. Molti sono rifugiati che il sistema dell’accoglienza non ha saputo accogliere. Vengono dall’America Latina, dall’Europa dell’est, ma anche dall’Italia.
Lucia ci apre la porta di casa sua al Metropoliz: l’odore di soffritto e peperoni si diffonde nel piccolo ambiente. Dentro ci stanno il letto matrimoniale, la cucina, i mobili pesanti in legno scuro massiccio e l’angolo bimbi. Lei si scusa mille volte perché in terra non troveremo i tappeti: al Metropoliz le famiglie rumene stanno facendo le pulizie di Pasqua (ortodossa) e i pesanti kilim sono messi a lavare. Appena fuori dall’uscio trionfano opere d’arte modernissime in versione murales ideate dagli street artist del MAAM. Nel grande spazio al piano terra, un tempo i maiali passavano tutta la trafila che li avrebbe portati al macello e trasformati in salamini compressi. Oggi rimane l’odore di grasso incastrato nei canali di scolo della catena di montaggio che gli artisti hanno trasformato in pinacoteche tematiche.
MAAM e Metropoliz convivono bene e l’idea di occupare, vivere, ma anche rendere bello e creativo uno spazio, è stata sposata dagli abitanti: a viale Giorgio Morandi, invece, l’arte fatica a trovare questa sintesi un po’ magica. Con i murales e con il disegno «cambi la faccia al quartiere», dice Carlo Gori.«Ma basta questo se la gente non vuole farsela cambiare?».