di Antonio Marafioti
Ida Ragone è una di quelle insegnanti destinate a diventarlo. Una di quelle studiose attratte dal mondo accademico che a un certo punto della sua vita sente, e accetta, la vocazione e decide di sposare la didattica e di adottare gruppi di studenti sconosciuti per due, tre, cinque anni scolastici di fila. Ida Ragone sceglie, quando può. In altri casi è il destino a scegliere per lei e, nel farlo, a mettere alla prova il suo senso di adattamento alle sfide che le pone davanti. Ne affronterà tante, Ida, nel corso de L’Anno Breve (Rizzoli 359 pp. 19 euro) il secondo romanzo di Caterina Venturini. La prima sfida è quella con il luogo: i reparti per giovani trapiantati, i reparti psichiatrici, quelli di riabilitazione di un ospedale romano. La seconda sfida è quella con il tempo. Perché insegnare italiano a giovani affetti da malattie terminali cambia la prospettiva della missione di un’insegnante fino a quel momento abituata ai ritmi dei licei pubblici frequentati da adolescenti, sani, nel fiore dei loro anni.
Ida sa che impartire lezioni al cospetto della sofferenza sarà una grande prova. La sente addosso fin dal primo ingresso in ospedale, dalle prime procedure di sicurezza sanitaria, dal primo approccio con l’aspetto e i toni asettici della fredda caposala.
Un passo dietro Ida c’è il lettore, che la segue, e che con lei condivide il senso di smarrimento, ma che è esonerato dalla responsabilità del contatto con il malato. Quello è riservato alla prof. che è subito eroina, tuttavia non invincibile. È la reazione alla propria e all’altrui fragilità a guidare i suoi passi dentro i vari reparti, fra le ragazze e i ragazzi che il primario le affida.
È in questo dualismo che si gioca la partita più avvincente del racconto: quella tra l’essere e il dover essere, fra l’istinto dell’insegnante e la dura legge del nosocomio. Tra il calore umano proprio del docente – del buon docente – e il pragmatismo apparentemente gelido delle terapie mediche. È un cortocircuito ripetuto, ma non perpetuo, provocato dalla burocrazia e dalla mancata coordinazione fra lezione e cura.
Il fato e la sua nemesi, l’impotenza di migliorarlo, sono protagonisti insieme all’insegnante romana che quando non esce dall’inquietudine, impara comunque ad accettarla.
Il processo è continuo e mai lineare, Ida lo affronta con ogni sua risorsa per ottenere un vantaggio sul tempo. Anche solo riuscire a fare un’ora di lezione o ottenere una risposta dallo studente, rappresenta una vittoria. È il miglior risultato quando si ha a che fare con chi si chiude in se stesso per difendersi dal dolore. Ida prova ad aprire “quelle porte” in tutti i modi.
La strada, meglio la corsia, è piuttosto irta, anche se la malattia perde progressivamente la sua insostenibilità. Ciò che non si accetta è l’aleatorietà che coinvolge i corpi dei vivi. È il loro entrare e uscire dalle stanze d’ospedale in uno spietato gioco di ricoveri e dimissioni, a dettare gli umori di una professoressa spesso ferma sul suo registro scolastico, di una donna alla disperata ricerca del significato ultimo della parola umanità.
La trova in Mattia, Andrea, Giulia, Luca, Eta Beta, Chiara, Elisa, Sara, Abdul, Franco, Sonia, Leila, Rosy, Marilù e Salvatore. Questi i nomi dei suoi studenti. Queste le vite sulle quali inizia a sentire un’implicazione personale che spesso si fa senso di colpa. Educazione cattolica dalla quale mal si affranca o onda lunga del transfert da insegnamento? Ida fa più domande, molte di più, delle risposte che dà e di quelle che riceve. E poi crea una confidenza accettata dai ragazzi e osteggiata dai medici, grazie alla quale svela il lato più rassicurante della storia: la fragilità può esser casuale, la consapevolezza la si sceglie, poco importa che si parli delle caratteristiche cliniche della schizofrenia o dell’incontro tra Giuseppe Parini e Jacopo Ortis.
I ragazzi studiano, quando possono. Quando la chemio, le sonde, gli antipsicotici, le terapie disparate e stordenti non riducono allo stremo i loro fisici e le loro menti. Quando l’allucinazione o il rigetto postoperatorio non annienta la freschezza del loro spirito critico.
Quello sviluppato da Giulia è irresistibile. Insegna a Ida cosa sono i neutrofili, impara da lei cosa significhi protoromantico. Poi studia Le ultime lettere di Jacopo Ortis e sentenzia: “Secondo me Jacopo era uno stalker”.
Non c’è solo ironia, ovvio. L’introspezione di Ida è totale. Ne osserviamo la vita, il carattere, le scelte personali, perfino le pulsioni erotiche, attraverso un sospeso temporale che oscilla dai disordini alimentari della sua prima adolescenza fino all’amore trovato dentro l’odio dei fatti di Genova nel 2001.
L’anno breve è un romanzo dalla prosa fisica, ma che mette il lettore di fronte a un ragionamento profondo sul valore assoluto dell’insegnamento, dello studio e dei rapporti umani che li anticipano. Per Ida il tempo rallenta, il lettore lo ritrova e, percorrendo il sentiero nascosto fra le righe, richiama il suo vissuto fra i banchi di scuola e il suo rapporto con i professori, anche con quelli che meritano di essere dimenticati.
L’intensità delle pagine di Venturini, che è insegnante prima che scrittrice, sta proprio in questa grande interrogazione comune – siamo pur sempre nella sua scuola – su un periodo fondamentale della vita.
L’offerta della scrittrice, non potrebbe essere più generosa, dà l’opportunità di vivere la storia attraverso gli occhi di tutti i suoi protagonisti, dal professore all’alunno, dal malato al dottore. Si finisce in alto, dentro camici bianchi, che sono scudi apparenti, su una torre di osservazione incontaminata, mentre già inizia una nuova discesa fra quei letti in cui se la sofferenza è patologica, fisiologiche sembrano essere la voglia di vivere e quella di imparare.
Titolo: L’Anno Breve
Autore: Caterina Venturini
Pagine: 359
Anno di pubblicazione: 2016
Editore: Rizzoli
ISBN: 978-88-17-08577-9
Prezzo di copertina: 19,00 €
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