Borderlife

Quando nel 2014 la scrittrice israeliana Dorit Rabinyan ha pubblicato Gader Haya, il suo terzo romanzo, non poteva immaginare ciò che sarebbe successo un anno e mezzo dopo.

Di Gabriella Grasso

Il libro, che in Italia è da poco uscito per Longanesi con il titolo Borderlife (euro 16,90), racconta la storia d’amore tra un’israeliana e un palestinese che si incontrano a New York. A fine 2015 è stato censurato nei licei israeliani, facendo scattare la solidarietà di intellettuali e comuni cittadini nei confronti dell’autrice. Dorit Rabinyan è stata ospite al Salone del Libro di Torino, dove l’abbiamo incontrata.

 

Iniziamo dalle polemiche che ha suscitato il suo libro: davvero non se le aspettava?
«No, anche se ero consapevole dei tempi bui che stiamo vivendo in Israele, con un clima politico sempre più nazionalista. Il romanzo è uscito due mesi dopo l’inizio della guerra a Gaza nel 2014. Per i primi 18 mesi sono stata sommersa da messaggi e telefonate di lettori che vivevano una “vita di confine” (“borderlife”, appunto) e mi inviavano foto che li ritraevano a leggere il libro nei rifugi, mentre fuori cadevano i missili. Molti soldati in missione nella Striscia immortalavano il romanzo accanto a borse militari e armi. Tutti i messaggi che ricevevo erano di gratitudine. La gente mi scriveva: grazie perché ci ricordi che siamo umani e che anche dall’altra parte ci sono brave persone, uomini e donne come noi. Durante una guerra si è assediati dalle brutte notizie, si vive nell’ansia, concentrati sulle frontiere e sugli insediamenti, mentre il mio libro portava l’attenzione su quanto noi e “loro” siamo simili. Sono stati mesi meravigliosi e non c’era motivo di aspettarsi le polemiche che sono arrivate in seguito. Il mio non è un romanzo provocatorio, ma intimo e delicato. Io non sono una persona radicale e nemmeno il mio lavoro lo è. Ma quando ho iniziato a essere accusata prima dalla sinistra estrema di aver adottato una visione troppo conservatrice e poi dalla destra mainstream di essere troppo radicale, allora ho capito che avevo toccato un nervo scoperto.».

Nessuno lo aveva fatto prima?
«Sembra strano a dirsi, ma no, non in questo modo».

Dopo che Borderlife è stato censurato nelle scuole, moltissimi israeliani sono corsi ad acquistarlo. Perché?
«Perché si sono sentiti minacciati, hanno percepito l’esistenza di una politica fascista e opportunista capace, per propagandare la propria visione conservatrice, di strumentalizzare un libro. Ma il nostro è il popolo che ha dato all’umanità il Libro dei Libri e gli israeliani ne sono consapevoli: comprando il mio romanzo hanno voluto prendere una posizione a favore del liberalismo e della libertà di espressione. Questa censura ha avuto un aspetto positivo: ha rivelato quanto una visione liberale sia radicata profondamente all’interno della società israeliana».

Parliamo del romanzo. C’è una grande differenza nel modo in due protagonisti, Liat e Hilmi, vivono la loro relazione. Liat non crede abbiano un futuro: nemmeno per un attimo pare sfiorata dal dubbio che possano davvero rimanere insieme. Perché?
«Un amico che aveva letto il manoscritto mi aveva fatto la stessa osservazione. Allora ho inserito un paragrafo in cui Liat prova a immaginare un futuro con Hilmi. Ma per farlo ricorre a immagini di film e pubblicità: non è capace di usare elementi di realtà. Affinché una storia d’amore possa nascere non possono esserci dubbi da entrambe le parti e in questo caso quella che dubita è lei. Per vari motivi. Innanzitutto Hilmi è uno che crede nella vita, la attraversa con passo leggero, è un artista; mentre lei è una ricercatrice, lavora con il pensiero. Poi lei è una donna, quindi più vulnerabile. Ma soprattutto, l’approccio di Liat ha a che fare con il suo essere ebrea. Noi abbiamo nel nostro dna la spinta a preservare noi stessi per noi stessi. Sono i muri del ghetto che abbiamo interiorizzato, il divieto a mescolarci che viene dalla comunità. Pratichiamo la separazione nella vita di tutti i giorni: il latte dalla carne, i giorni lavorativi da quelli sacri, gli uomini dalle donne dentro le sinagoghe. Ci sono così tante regole, raccolte in un grande libro, che dovremmo seguire per essere dei bravi praticanti! E tutto questo implica ripetere ai nostri figli che siamo diversi dagli altri, che siamo isolati: un’attitudine che ci ha portato tutte le catastrofi che sappiamo, perché la nostra diversità sottintende un’idea di superiorità: ma questa è un’altra storia. Il dna che ci spinge a non allontanarci da ciò che siamo per non rischiare di dimenticarlo è molto radicato in Liat, ha modellato la sua identità. Per questo non riesce a concepire che la relazione superi i confini dell’inverno del 2012 a New York».

C’è un momento in cui anche Hilmi sembra assumere un atteggiamento di distacco. Durante una cena alla quale è presente suo fratello nasce una discussione politica molto accesa. Liat viene attaccata e lui non interviene in suo aiuto.
«Siamo tutti creature tribali e quella sera, per la prima volta, Liat vede Hilmi con la sua tribù. Da come lui si comporta lei comprende che lasciarsi andare, abbandonare la propria ostinazione, fare un passo oltre il confine che li separa, immaginare una vita con lui, significherebbe inevitabilmente assumere i codici tribali degli “altri”. Rinunciare a ciò che è. Per lei è un campanello d’allarme».

Liat accusa Hilmi di non averla difesa durante la cena per vendicarsi del fatto che lei fa di tutto per nascondere la relazione ad amici e familiari. È davvero questo il motivo? O anche lui, dovendo scegliere tra la propria comunità e l’amore per lei, inevitabilmente sceglierebbe la prima?
«Non lo faremmo tutti? È ciò che dobbiamo fare».

Allora incontrarsi è impossibile…
«Ma loro si incontrano! Condividono un destino, avvertono il senso di fratellanza che li unisce perché provengono dallo stesso luogo. È vero, io non inseguo il sogno romantico della coppia mista che supera ogni ostacolo. Al contrario metto in evidenza come anche in un territorio franco come New York, anche se ti consideri uno spirito libero, un cittadino del mondo, ti porti comunque addosso il peso di una gravità che ti viene dalle tue origini, dall’infanzia, dal paesaggio umano che ti ha forgiato, dalla politica, dall’educazione. La verità è che se hai un’identità ricca e complessa non puoi facilmente superare le barriere, abbandonare il carico di ciò che sei. Se Liat avesse incontrato un italiano o un francese la storia si sarebbe evoluta in maniera diversa. Invece incontra il nemico. E questo nemico diventa così intimo, così vicino, che lei sente che sta iniziando a lasciarsi andare e allora, per paura di indebolire la propria identità, vi si arrocca ancora di più. Perché comprende che davanti a un uomo meraviglioso come Hilmi, a un’anima così bella, potrebbe cedere. E perdersi».

L’idea di questo libro è nata da un periodo che lei, proprio come la sua protagonista, ha trascorso a New York.
«Non solo l’idea: questo romanzo è stato scritto a causa della morte di Hassan, un uomo che ho incontrato frequentando un gruppo di intellettuali palestinesi a New York e che è stato il mio compagno. Un uomo bello, pieno di talento, carismatico, con il quale ho trascorso un periodo meraviglioso. Nella realtà noi eravamo più rilassati di Liat e Hilmi, la nostra storia non era così drammatica: è la sua morte che l’ha resa tale. Per me stare accanto a lui è stata un’esperienza educativa fonte di grande ispirazione. Attraverso di lui ho imparato moltissimo su me stessa, sul mio essere israeliana, su quanto siamo simili ai palestinesi, sul significato della parola Patria».

Non credevo che la narrazione fosse così autobiografica…
«È basata su un’esperienza personale, ma io sono una scrittrice. La mia memoria non è forte quanto la mia immaginazione. In generale la memoria dell’uomo non è forte quanto la sua immaginazione. Ho impiegato sei anni a scrivere Borderlife. Per i primi due sono stata convinta che il mio lavoro fosse quello di ricordare e raccontare. Volevo costruire un monumento letterario alla memoria di Hassan, per celebrarlo e far conoscere la sua arte, per esprimere quanto la relazione con lui fosse stata per me significativa, ma anche bella e divertente. Dopo due anni, però, ho capito che le mie mani sono fatte per inventare, per accendere un fuoco a partire dalla memoria, come negli altri miei libri. È come se Hassan mi avesse messo in mano una scatola di fiammiferi, ma poi sono io che ho fatto divampare l’incendio».

I dubbi e i pensieri di Liat sono mai stati i suoi?
«Non sono mai stata così rigida. Non tenevo la nostra relazione nascosta: la mia famiglia e gli amici hanno avuto occasione di incontrare Hassan e apprezzarlo. E per me conoscere la sua famiglia è stata un’esperienza sorprendente, come scoprire una nuova specie. Perché in Israele siamo abituati a pensare che tutti i palestinesi vivano sotto l’assedio della religione, invece lui e la sua famiglia erano liberi, atei, artisti. Per il tempo che la relazione è durata l’ho vissuta come un’avventura. Che purtroppo ha avuto un epilogo tragico».

La storia tra Liat e Hilmi si svolge durante un inverno. Il clima gelido di New York, per entrambi poco familiare, sembra favorire il reciproco riconoscimento: hanno le stesse origini.
«Esattamente. Sono entrambi levantini, il Nord America non è il loro habitat naturale. Provengono dallo stesso luogo, hanno nostalgia della stessa terra e dello stesso sole. Si relazionano con il sole nello stesso modo, fa parte della loro identità fisica. E quell’inverno così duro, schiacciandoli, li porta a stare uniti, ad aggrapparsi l’uno all’altra come esseri simili. Similitudine di cui non erano consapevoli».

C’è una scena molto bella in cui Hilmi riceve dalla Palestina un video: è stato girato da suo fratello su un terrazzo di Ramallah che guarda verso Israele. Per Liat quel video è l’occasione per operare un cambio di prospettiva, vedere la situazione – e il suo Paese – dal punto di vista dell’altro.
«È una scena fondamentale. Liat a un certo punto ferma le immagini, si avvicina allo schermo e chiede a Hilmi: “E allora, dov’è questa Green Line? Mostramela”. E lui gliela mostra. Quel passaggio del libro per me è l’occasione per affermare due cose, in contraddizione l’una rispetto all’altra. Da una parte sottolineo quanto sia importante avere delle frontiere e dico: dividiamo questa terra in due, con la Green Line come confine! D’altra parte, affacciandomi da quella terrazza di Ramallah mostro quanto sia piccola la terra per la quale combattiamo: sarebbe davvero possibile dividerla? I politici di destra e i coloni non hanno tutti i torti, non possiamo pensare che siano totalmente pazzi. Non dividendo la terra diventeremmo uno stato binazionale e in questo caso la nostra esistenza come maggioranza ebrea che merita di vivere in una democrazia potrebbe essere in pericolo».

Un cambio di prospettiva sarebbe l’unico modo per avvicinare i due popoli. Ma come lo si opera? Può farlo la letteratura?
«La letteratura è l’unico modo che conosco. Favorire un cambio di prospettiva è la nostra missione come intellettuali affinché una riconciliazione possa aver luogo. Ma non succederà in questa generazione, perché siamo ostaggi di leader politici che perseguono esattamente l’obiettivo opposto, vogliono che restiamo con la nostra visione ristretta, con la paura di uscire da noi e indossare i panni dell’altro. Sono pronti a tutto pur di ottenere il loro scopo: anche proibire un libro per evitare che gli adolescenti scoprano che esiste un altro punto di vista. Io ho sentito che questo romanzo lo stavamo scrivendo insieme, io e Hassan. Oltre alla mia prospettiva doveva esserci un po’ anche la sua. Ed era mio dovere essere giusta nei suoi confronti».