di Christian Elia
L’installazione è stata un successo, sia per il numero dei visitatori che per il numero delle persone che hanno voluto contribuire.
Parte da Sarajevo, destinata a non star ferma, l’esperienza (conclusa il 14 maggio scorso) del museo partecipato della memoria di coloro che sono cresciuti in guerra.
L’invito a portare qualsiasi cosa, un oggetto, una registrazione, un video, una foto, un disegno o altro è stato raccolto da più di mille cittadini a Sarajevo. Coloro che, bambini, furono sorpresi dall’arrivo della guerra, nel 1992. Fino al 1995 la città restò assediata. Quei tre anni, insomma, visti con gli occhi dei bambini.
E della memoria del conflitto, così come l’hanno elaborata, superata o meno, raccontata e vissuta.
L’idea è venuta a Jasminko Halilovic, che ha iniziato a raccogliere da solo gli oggetti che per lui avevano un legame tra la sua memoria, la sua vita e il periodo in cui era un bimbo, nella Sarajevo in guerra.
La sua ricerca, poi, si è lentamente estesa. Prima i parenti, poi gli amici, poi la voce che gira in città e diventa un’onda del ricordo. Fino a trasformarsi in un libro, War Childhood e poi un documentario, o un report sulla condizione dei bambini in zona di guerra. Perché, forse per la prima volta, al di là dei classici disegni che si vedono in ogni guerra, agli adulti di oggi viene chiesto di rimettere in gioco il bambino di ieri.
“Nel tempo, ho capito che molti di loro avevano conservato oggetti di ogni genere per più di venti anni. Ancora quegli oggetti, in qualche modo, li connettono a quel periodo della vita, che hanno vissuto da bambini. E avevano un urgente bisogno di condividere le loro storie. Per quello ho deciso di dar vita a questo museo”, racconta Halilovic al portale BIRN.
Non ci sarà, per il momento, una sede fissa, ma la mostra dopo Sarajevo andrà altrove, in Bosnia – Erzegovina, aprendosi a nuovi contributi e diventando una sorta di valanga della memoria, con la forza dell’immaginazione dei bambini, e la maturità di chi alla guerra è scampato, portandosi dietro le sue ferite.
I duemila oggetti, le migliaia di ore di registrazione e tutto il resto sono destinate ad aumentare e ad allargarsi oltre l’assedio di Sarajevo.
Perché gli oggetti ci dicono molto di noi, anche se a volte sembra assurdo che qualcuno, in una situazione limite tra la vita e la morte, possa collegare quel periodo a delle scarpette da ballo (nella foto di copertina dell’articolo), come ha fatto Mela, che nel 1992 aveva otto anni.
Per lei, e per tanti, in quella scelta c’è il passato, un futuro che poteva essere e uno sguardo verso la vita che continua.