Un diario per immagini, il Nepal del dopo terremoto e la vita che continua
testo e foto di Michela Chimenti, da Kathmandu
Sto imparando a conoscere il Nepal, sono qui solo da pochi giorni e la ricostruzione è ovunque. Ma che tipo di ricostruzione? Il problema è che si sta ricostruendo non rispettando le antiche architetture e in barba al recupero dei vecchi materiali. Il rischio che si nota, sotto il cielo, è che vada perso un patrimonio, una ricchezza, sicuramente importante per questo Paese, ma guardandomi intorno penso a che alternative serie ed immediate ci siano.
Gli aiuti tardano ad arrivare e ad essere distribuiti (alle persone, non nelle casse), un piano regolatore non è mai esistito, chi ha i soldi per ricostruire lo fa al meglio che può, e gli infissi storici vengono in secondo piano rispetto all’urgenza di avere un tetto sulla testa, soprattutto con il monsone alle porte.
Si cammina per le strade piene di turisti a Kathmandu o, poco lontano, per le viuzze immobili di Changu Narayan o di Bungamati al tramonto, e di tanto in tanto si incontrano cataste di legni intarsiati, materiali recuperati in mezzo al disastro, pezzi di ciò che era ed era stato per tanto tempo. E ci si chiede se qualcuno se ne prenderà cura.
Non si sa mai cos’è venuto prima: se la voragine o la casa rosa che spunta dal nulla, la montagna di mattoni o le crepe sulle pareti. Non si ha mai modo di capire cosa c’era prima e cosa è venuto dopo quel 25 aprile 2015. Non è un gioco solo di pieni e vuoti, è un colpo d’occhio sulla successione delle strutture: le case sono strette e alte, sempre più alte, ancora un po’, e spesso fra una palazzina sottile e un’altra c’è uno spazio, non c’è più niente, è crollato tutto. E un po’ di paura, pensandoci bene, viene ancora.
Anche se non c’ero, anche se il terremoto non l’ho sentito, alzo gli occhi, guardo le palazzine sottili sottili, alte alte, e senza avere troppa fantasia un po’ di rumore lo si sente ancora.
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