di Marco Todarello
Nella notte tra il 5 e 6 dicembre 2007, un fiume di olio in fiamme travolge otto operai sulla linea 5 dell’acciaieria ThyssenKrupp, a Torino. Antonio Schiavone muore poche ore dopo. Giuseppe De Masi, Angelo Laurino, Roberto Scola, Rosario Rodinò, Rocco Marzo e Bruno Santino muoiono nelle settimane successive per le gravi ustioni riportate. L’unico superstite è Antonio Boccuzzi, la cui testimonianza è stata fondamentale nel processo.
La Procura di Torino chiede il rinvio a giudizio con l’accusa di omicidio volontario per sei dirigenti dell’azienda tedesca, colpevoli di avere “cagionato la morte degli operai omettendo di adottare misure di prevenzione e protezione contro gli incendi”. Il tribunale accoglie tutte le richieste dell’accusa.
Nella sentenza del processo di appello, l’accusa fu derubricata a omicidio colposo aggravato dalla colpa cosciente. Il 14 maggio scorso, otto anni dopo il rogo, la Cassazione ha confermato le pene ridotte del processo di appello bis. La pena più alta è di 9 anni e 8 mesi, inflitta all’ad di ThyssenKrupp Harald Espenhahn.
Fin qui la cronaca, che è doveroso ricordare perché la prima sentenza ThyssenKrupp fu la prima che sancì l’accusa di omicidio volontario per un alto dirigente d’azienda, segnando per sempre la storia del diritto e l’approccio degli imprenditori al tema della sicurezza; e che ha profondamente coinvolto l’opinione pubblica italiana diventando il caso simbolo del dramma delle morti bianche.
Acciaio liquido, spettacolo in scena fino al 29 maggio al teatro Out Off di Milano, parte da quella storia, saldamente radicata nella memoria emotiva della nazione, per raccontare l’uomo.
L’uomo e i suoi comportamenti davanti al dolore, alla fragilità, alle paure e a quel rischio che è sempre incluso in una scelta. E non a caso nel testo non compaiono mai né la ThyssenKrupp né i nomi o i dettagli della tragedia di Torino.
È indubbiamente teatro civile, quello dei bravi Marco Di Stefano (autore del testo) e Lara Franceschetti (regista), ma non lo definiremmo teatro di denuncia: è infatti fin troppo chiara la loro intenzione di non abbandonarsi all’ideologia o alla retorica operaista e anti-capitalista.
Se pure c’è l’interesse a raccontare il mondo del lavoro e le sue dinamiche, la sicurezza nelle fabbriche e i (torna)conti dei board aziendali, l’obiettivo vero è quello di mettere l’uomo a nudo davanti alle sue miserie, che sia la vergogna del manager per la galera che lo aspetta, o quella del fratello dell’operaio che ha comprato l’auto con i soldi del risarcimento. A nudo, come nudi restano i sette ottimi attori protagonisti, i manager-operai, perché hanno vissuto identificandosi in ciò che hanno fatto e non in chi sono stati davvero.
La scena è divisa in quattro tempi, in cui gli attori mettono le vesti dei manager prima dell’incidente, poi quelle degli operai nello spogliatoio in attesa del turno, poi quelle di alcuni familiari straziati dopo la tragedia, e infine ancora quelli dei manager, tra la disperazione di chi si sente finito per sempre e il cinismo di chi affronta la galera sapendo che faceva parte dei rischi.
Manager spietati che irrompono sulla scena camminando su linee rette, inflessibili come i loro slogan, degni rappresentanti di quei Chicago Boys che negli anni ’70 teorizzarono il neoliberismo perfetto.
“Delocalizzare”, “aumentare il ROI (return on investment)”, “tagliare i costi di gestione”, sono fendenti esplosi in faccia al pubblico, e non è difficile immaginare che a Essen, ai piani alti della ThyssenKrupp, multinazionale dell’acciaio da 41 miliardi annui di fatturato, si ragionasse e si ragioni così ancora oggi.
Il secondo tempo ci porta nel cuore dello spogliatoio, con gli operai pronti per il turno notturno. Tra gli armadietti si scherza, ci si confida, si raccontano gioie e paure, ogni spettatore può trovare nel vissuto di “Orso”, “Ragno”, “Dandy”, “Rosso”, “Bimbo” e “ L’Attore” le storie di un amico, un fratello o di sé stesso.
E così era veramente, come ha più volte raccontato il sopravvissuto Antonio Boccuzzi, perché con turni di 12 ore e turni doppi si finisce per fare dei colleghi la propria famiglia.
C’è chi attende con cinismo la chiusura della fabbrica («a me non me ne frega niente della retorica dell’operaio, io rimango qui per prendermi la buonuscita e basta»), ma anche chi spiazza i propri compagni con parole che sembrano d’amore: («a me piace lavorare: mi piace vedere l’acciaio che si modella, e poi la fabbrica è come mia madre, mi dà sicurezza»).
Il tema del lavoro come sacro patrimonio umano in Acciaio liquido ritorna spesso, e sempre senza retorica: è l’orgoglio del fare le cose per bene, del contribuire al progresso della comunità, del difendere un grande valore in un mondo di indifferenza, o semplicemente dell’essere “bravi operai”.
«Mio figlio è un grande operaio!». Questo dice, tra le lacrime, il padre di una delle vittime, nel terzo tempo dedicato alla reazione dei familiari. Anche qui, come in tutti gli altri blocchi dello spettacolo, ogni personaggio è esplorato su due piani: quello interno, più umano, e quello esterno, in cui ognuno di noi si plasma in base al contesto e alla società che lo circonda.
È qui uno dei momenti più emozionanti dello spettacolo: la ribellione della vedova di uno degli operai, furiosa perché la burocrazia le complica la registrazione del nome del figlio neonato, che vuole chiamare come il marito morto tra le fiamme. Perché il dolore acceca, ma il mondo che continua ad andare avanti con le sue miserie mentre tutto dal di dentro crolla no, questo non si può accettare. Eccellente l’interpretazione di Federica Armillis.
Un altro momento altissimo è quando “L’attore”, un operaio che sogna di recitare, recita un brano del Prometeo Incatenato di Eschilo: è la storia del titano punito da Zeus perché aveva donato il fuoco agli uomini, deciso ad aiutare l’umanità a progredire. Lo stesso fuoco con cui gli operai della Thyssen intagliavano l’acciaio per costruire macchine, automobili e ascensori, ma che per la negligenza di altri uomini gli si è rivoltato contro.
Nell’ultimo atto i manager-operai-familiari delle vittime rimettono i panni dei manager, ma stavolta la tragedia si è compiuta. Si poteva evitare, firmando un piano aziendale che prevedesse tra le spese urgenti anche la sicurezza e la manutenzione, ma non è stato fatto. E adesso? Alla disperazione dei dirigenti che temono il carcere fa da contraltare il cinismo dell’amministratore delegato: «Sciocchi, non conoscevate i rischi? Il progresso ha bisogno dei morti sul lavoro. Senza morti bianche non ci sarebbero le piramidi, o i ponti, e nemmeno i grattacieli».
Wrong dei Depeche Mode accompagna il rito finale, lo spoglio delle vesti che mette gli uomini davanti a sé stessi.
Acciaio liquido ha un ultimo, grande merito, ed è quello di mettere lo spettatore al centro. Uscendo dal teatro, affiorano due considerazioni e una domanda: la giustizia è veramente giusta per i tribunali, ma non per gli uomini. La verità è sempre relativa. Cosa avrei fatto al posto loro?
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