di Lorenzo Bagnoli
“Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono”. Nell’aforisma di Gandhi la conclusione è “poi vinci”. Per Khadija Ismayilova, giornalista azera pluripremiata in carcere in Azerbaijan a causa delle sue inchieste, quella di oggi è una vittoria parziale. La notizia che aspettava è finalmente giunta: la Corte suprema dell’Azerbaijan ha deciso per la sua scarcerazione, dopo un anno e mezzo dietro le sbarre. Ma ancora deve scontare due anni e mezzo di libertà vigilata. Resta pendente la condanna per corruzione, giudicata totalmente artefatta da organizzazioni internazionali come Platform e Amnesty International. Ma non è questo il motivo che rende la vittoria di Khadija parziale. La ragione è che il Paese non è cambiato. Per quanto il dittatore Ilham Aliyev in questi ultimi mesi abbia liberato tutti gli attivisti per i diritti umani più in vista del Paese, le retate anti-opposizione restano, così come resta l’ossessivo controllo dei media, il divieto di raccontare Baku per chi non è gradito a casa Aliyev.
All’inizio nella capitale azera nessuno dava credito a Khadija Ismayilova. Il suo lavoro d’inchiesta in patria era sempre screditato. È diventata un personaggio noto solo in seguito, grazie ad una trasmissione di successo su Radio Free Europe/Radio Liberty che le è costata accuse di spionaggio. I dossier dei servizi azeri la descrivevano come una donna al soldo dei nemici armeni. Falsità gratuite della guerra che Ilham Aliyev ha iniziato con la cronista.
Le sue inchieste di maggiore impatto di Khadija Ismayilova sono state realizzate in collaborazione con il consorzio di centri per il giornalismo investigativo Organized Crime and Corruption Reporting Project (Occrp), struttura finanziata tra gli altri da Open Society Foundation e USAid (per questo aspramente criticata da Julian Assange e Wikileaks), che rappresenta un faro per la libertà di stampa della regione. L’organizzazione, tra il resto, è stata dietro alla pubblicazione dei Panama Papers, in cui la famiglia del dittatore azero è implicata fino al collo, tra aziende minerarie controllate attraverso fondi panamensi, fino a società immobiliari a Londra attraverso le quali controlla un piccolo impero. I giornalisti di Occrp sono molto legati a Khadija e alla sua storia. Hanno raccolto tutte le inchieste della collega in un progetto, Khadija’s project, con il quale hanno portato avanti le indagini di Ismayilova. Il lavoro si è guadagnato la menzione speciale del Tom Renner Award, uno dei premi giornalisti tra i più ambiti del mondo.
Khadija’s project è stato il momento più alto di un’infinita campagna internazionale per la sua liberazione, scandita sui social dall’hashtag #freekhadija. Negli Stati Uniti da gennaio 2016 Ismayilova ha avuto il supporto di Amal Clooney, la moglie dell’attore americano che di mestiere è avvocato difensore dei diritti umani.
Proprio l’impegno di Washington è tra le probabili cause di questa scarcerazione. Khadija era l’ultima dei prigionieri politici celebri ad essere ancora in carcere, ma sembrava che non ci fossero motivi perché Aliyev la liberasse. Poi però il clima verso Aliyev, conclamato usurpatore dei diritti umani dei suoi concittadini, è cambiato anche gli Stati Uniti, Paese sede delle lobby pro azeri più influenti del mondo.
Nel solo 2014 l’Azerbaijan ha foraggiato think thank americani con 4 milioni di dollari
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La Socar, società di proprietà statale che controlla il bene su cui si basa il potere azero, il petrolio, è il rubinetto di fondi da cui attingono oscure fondazioni come la Assembly of the Friends of Azerbaijan (AFAZ). Nonostante più volte il Comitato etico del Congresso americano abbia più volte cercato di limitare lo strapotere economico dei lobbisti azeri, per anni il loro agire è stato indisturbato. Amar Mammadov, figlio del ministro dei trasporti Ziya, è un tycoon che fa la spola tra Washington, dove guida la Azerbaijan America Alliance, e Baku. E tra i multimiliardari con cui fa affari c’è il candidato alla presidenza degli Stati Uniti Donald Trump, con il quale condivide la proprietà del Trump International Hotel & Tower Baku, il più lussuoso hotel della città.
Il parziale cambio di rotta della famiglia Aliyev probabilmente è legato alla perdita di potere d’acquisto del Paese. Il prezzo del petrolio è ai minimi storici, le casse di Baku piangono. E allora l’arroganza con cui si poteva sbattere in prigione una voce dissonante nel coro di peana si è sfumata. Il destino economico del Paese, paradossale a dirsi, è appeso tra il resto a prestiti di Banca Mondiale e Fondo monetario internazionale, come ricorda Re:Common, unica ong italiana che si è recata nel Paese per comprendere la censura del regime di Baku. Quando oltre all’attenzione dei difensori dei diritti umani, ci sarà anche quella delle borse, allora forse Khadija potrà dire “poi vinci”.
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