di Rosa Moussaoui, pubblicata da L’Humanitéin occasione della pubblicazione del libroPolitiques de l’inimitié. La traduzione è a cura di Lorenzo Alunni e Nicola Perugini, tratto da il lavoro culturale
L’inimicizia, nell’era del capitalismo finanziario in crisi e della guerra contro il “terrorismo”, è divenuta la modalità dominante di relazione. Questa la constatazione di Achille Mbembe. Lo storico e filosofo delinea qualche preziosa via d’uscita per una politica della relazione su scala globale, rompendo con le logiche della dominazione economica, i ritorni identitari e gli slanci imperialisti.
Nel suo ultimo saggio, Politiche dell’inimicizia, lei dipinge un’implacabile processo di “uscita dalla democrazia”. Tre decenni dopo la caduta del muro di Berlino, possiamo parlare di un destino autoritario del neoliberalismo?
Abbiamo una visione alquanto parziale della storia della democrazia. Il paradosso di questa storia è che la democrazia ha due corpi. Da un lato, un corpo diurno, quasi solare, che l’ideologia post-1990, dopo la caduta del blocco dell’est, ha magnificato. Dall’altro lato, un corpo notturno, legato alla separazione tra un qui e un altrove in cui ci si può permettere tutto: saccheggiare, sfruttare, brutalizzare, uccidere, infliggere la morte in maniera extra-giudiziaria, senza dover renderne conto a nessuno. Un altrove in cui si può scaricare quella violenza che, se fosse esercitata all’interno, sfocerebbe nella minaccia della guerra civile. Lo abbiamo visto durante il momento coloniale. Lo vediamo oggi nella guerra contro il jihadismo. In questa fase neoliberale, i due corpi della democrazia, il corpo diurno e quello notturno, si stanno ricomponendo, in concomitanza con la scomparsa delle frontiere oggettive tra il qui e l’altrove. Da qui derivano gli scivolamenti autoritari ai quali assistiamo.
Il mondo è diventato piccolo. In contrasto con il mondo del periodo coloniale, e con i mondi delle conquiste, delle “scoperte”, questo mondo ha mostrato i suoi limiti. È un mondo finito, attraversato da vari flussi incontrollabili, movimenti migratori, movimenti di capitale legati alla finanziarizzazione estrema dell’economia. Senza contare tutti i flussi creati dall’affermarsi della nuova ragione digitale e segnati dall’accelerazione della velocità, lo sconvolgimento dei regimi temporali. Questo favorisce un groviglio inedito tra dentro e fuori. La conseguenza è che è ormai divenuto impossibile vivere in sicurezza qui quando si fomentano il disordine e il caos altrove. Il caos e il disordine tornano indietro come un boomerang. Nella forma di attentati, ma anche di rafforzamento della pulsione autoritaria tra noi stessi. Uno scivolamento autoritario presentato come condizione per la salvaguardia della nostra libertà. Accettando più sicurezza nel nome della salvaguardia delle libertà, accettiamo dunque anche lo scivolamento autoritario. C’è una tensione tra la capitolazione e il desiderio di rivolta, un desiderio che è anch’esso un dato cruciale dei tempi che viviamo. Da un lato l’abdicazione e dall’altro un desiderio fondamentale d’insurrezione che si esprime qui e là in forme completamente nuove.
La decolonizzazione secondo lei avrebbe liberato delle passioni che, di ritorno, giungono a giustificare, nelle ex-metropoli, nuove spedizioni coloniali. La decolonizzazione, dunque, come esperienza storica, non sarebbe altro che una parentesi?
Diciamo che la decolonizzazione è stata un momento specifico di riconfigurazione delle scene di lotta. E in ogni caso non ha risolto la questione della spartizione del mondo, l’unico mondo che abbiamo.
Lei evoca l’ossessione dell’arabo, dell’ebreo, del negro… Che cos’è che scompiglia i termini del rapporto con l’altro?
La coscienza di questo mondo piccolo e finito esaspera il sentimento secondo cui occorrerebbe, per proteggersi, riattivare le frontiere, costruire i muri, separarsi. Non avremmo più a che fare con degli avversari ma con dei nemici che se la prendono con la nostra esistenza, i nostri “valori”, non importa quanto vaghi siano questi termini. Ecco cosa è cambiato: questa realtà del nemico e, quando il nemico non esiste, questa propensione a inventarsene uno. In questa configurazione, l’altro è percepito come una minaccia e il rapporto d’inimicizia e la volontà di separarsi diventano la sola forma di relazione.
Lei definisce il terrorismo come una forma di “necropolitica”. Anche questa è un’espressione di tale volontà di separazione?
Sì! È la conseguenza ultima di questo modo dominante di relazione che troviamo anche nel colonialismo. Il colonialismo da sterminio e da eliminazione porta anch’esso con sé questa dimensione necropolitica, di dispiegamento della morte come modo di governo. Da un punto ti vista storico, questo modo di esporre i nemici a dei rischi mortali è costitutivo della democrazia. Il regime d’eccezione delle colonie ormai si è riversato sul territorio nazionale delle “democrazie”. Questo favorisce lo scivolamento autoritario indispensabile al neoliberismo per continuare a restare attivo in questa fase della sua storia. Il terrorismo è l’opportunità storica che consente di arrivare a questo punto, di decostruire negativamente la democrazia abrogando i diritti, proclamando lo stato di eccezione, attraverso la trasformazione poliziesca dei meccanismi di gestione del quotidiano.
In questo dispositivo, quale senso assume l’evocazione di identità fisse e fantasmatiche?
Le democrazie liberali sono fondate su un’idea di identità pensata in termini di radici, di autoctonia. È membro della comunità politica chi è nato qui, chi è di questo luogo. Il cittadino è un autoctono. Lo straniero può diventare cittadino se accetta di autoctonizzarsi, ma questo è un processo complicato, non aperto a tutti, un processo condizionale… e reversibile, nel caso della decadenza della nazionalità. Ecco il fondamento antropologico della democrazia liberale. Sappiamo bene che essere nati da qualche parte e da qualcuno dipende dal caso e non da una scelta. Ma nell’immaginario democratico liberale, questa casualità si trasforma in un destino a cui siamo condannati.
Non è che questa fissazione dell’identità – che sia nazionale, culturale o religiosa – altro non è che una forma d’antidoto a un’eventuale cristallizzazione della coscienza di classe?
Sì, è un modo per depistare i potenziali di rivolta verso oggetti sbagliati, oggetti casuali. Chiaramente, la manipolazione delle identità infelici è una maniera di deviare verso degli oggetti sbagliati le energie che potrebbero essere utilizzate in altro modo, nelle vere lotte di liberazione. L’ampiezza degli sforzi dissipati in queste storie è piuttosto interessante, ma alla fine, l’identità, ammessa la sua esistenza, non potrebbe comunque essere stabile. A darmi l’identità è l’altro, nel momento dell’incontro con lui. A essere importante non sono né la nascita né le origini: è il cammino, gli incontri che si fanno lungo quel cammino e quello che si fa.
Poiché la tratta negriera e lo schiavismo furono due delle condizioni che hanno permesso la nascita del capitalismo moderno, è in questo quadro che vennero sperimentati dei processi poi applicati a tutto il mondo. Lei per esempio fa riferimento alla deforestazione di Haiti… L’economia delle piantagioni è stata una delle matrici della devastazione ecologica?
È chiaro che il colonialismo si basa anche su un progetto di sottomissione della natura alla forza predatrice di certe categorie di essere umani, con la trasformazione di una natura detta selvaggia in un paesaggio detto umano. Questo porta ad aggiustamenti brutali, all’eliminazione di certe specie e alla loro sostituzione con altre. Ma anche le guerre coloniali hanno una dimensione ecologica. Non c’è guerra che non abbia, in un modo o nell’altro, un costo ambientale.
Si riferisce a quel momento coloniale diventato una riconfigurazione del modo di fare la guerra…
Il diritto della guerra alla colonia non viene applicato. La colonia è il luogo di sperimentazione della guerra al di fuori della legge, della guerra senza riserve il cui orizzonte è l’eliminazione, lo sterminio. È un laboratorio di violenza incondizionata. Esistono oggi numerose manifestazioni di guerra fuori dalla legge. Il simbolo più spettacolare e più postmoderno di questa guerra fuori dalla legge è il drone, che consacra il principio dell’esecuzione extragiudiziaria. Ma anche coloro che chiamiamo terroristi ricorrono a esecuzioni extragiudiziarie.
Cos’è che permette di paragonare i droni alle macabre messinscena di sgozzamenti?
È tutta questione dei mezzi tecnologici a disposizione. Ma abbiamo a che fare con due mitologie nichiliste che si affrontano. Una mitologia nichilista che pretende di sradicare le passioni religiose – o che si autodefiniscono religiose – attraverso bombardamenti aerei, e un’altra mitologia nichilista che pretende di mettere fine alle tutele esterne attraverso decapitazioni spettacolari o operazioni con le quali si uccidono gli altri uccidendo se stessi, suicidandosi. Queste due forme di passione nichilista mirano a una cosa: l’annientamento di qualsiasi possibilità di relazione.
Allora a quali condizioni possiamo ristabilire una politica della relazione? E se, come dice lei, il mondo intero è diventato una scena coloniale, come può realizzarsi quella “decolonizzazione radicale” che invocava Frantz Fanon?
La soluzione rimane da trovare nell’invenzione di una forma di democrazia propria dei nostri tempi, prendendosi responsabilità di tutti gli esseri viventi, di tutto quello che riceviamo in eredità e tutto quello da cui dipendiamo per la nostra sopravvivenza come specie fra altre specie. La storia umana è una parentesi nella storia generale del mondo. Siamo di passaggio, nel mondo. Questo nuovo progetto democratico deve fare allora posto all’idea e alla pratica di questo passaggio. Un’altra via d’uscita da questa strada senza uscita è l’imperativo di redistribuzione egualitaria delle risorse dell’universo. Ciò richiede altri modi di riconoscere i debiti. Si potrebbe immaginare, al di fuori delle forme attuali, una maniera non espropriatrice di onorare i debiti. Come ultima via d’uscita, dovremo rianimare e coltivare le facoltà critiche che la guerra, il militarismo e il capitalismo finanziario cercano di distruggere, mettendo fine a questa brutalità che mira a interrompere il pensiero, a essiccare le risorse dell’immaginario e a impoverire il linguaggio istituendo un mondo monosimbolico, se non antisimbolico.
Su questo punto, Frantz Fanon dice della lotta che dà luogo a una «festa dell’immaginario». Cosa intendeva?
Questa «festa dell’immaginario» ha assunto forme molteplici nel contesto delle lotte anticoloniali. Per cominciare, richiede un nuovo rapporto con il corpo, in particolare con il corpo inquinato, disonorato, il corpo subalterno, violentato e distrutto. Questo corpo è rianimato e restituito al principio del movimento, senza il quale è solamente un corpo inerte, un corpo-oggetto. Alla fine di Pelle nera, maschere bianche, Frantz Fanon indirizza questa enigmatica preghiera al corpo: «Oh mio corpo, fa sempre di me un uomo che domanda». Si tratta dell’interminabile interrogarsi, in opposizione all’interminabile interrogatorio. C’è, intorno a questa preghiera al corpo, un territorio immenso, una grandissima festa che apre alla possibilità della trasfigurazione del corpo. Sono questi gli orizzonti che dovremmo aprire per creare del senso, per arricchire la lingua e “risimbolizzare” l’universo in un modo che favorisca la condivisione invece che la separazione.