fra emergenze mediche e voglia di libertà
testo e foto di Ilaria Navarra
26 maggio
6.30 del mattino. Via Prè deserta e la pescheria. La vedo aperta solo quando sono in ferie. Ma oggi lavoro, anche se sono in ferie. In stazione due ragazzi con quegli occhi che si riconoscono subito. Con Maria gli chiediamo dove vanno: stesso posto, stessa ora. Finalmente arriviamo. Nel viaggio mi ero tirata giù un foglio con domande da fare; dopo l’ultima volta che sono stata a Ventimiglia sento l’esigenza di raccogliere oltre all’anamnesi, le loro storie. In stazione esercito, polizia. Faccio segno ai ragazzi di uscire a sinistra, via libera. Sorridono.
Finalmente arrivo al campo. Che voglia avevo di tornare. Tutte le sensazioni di ieri sono lontane, ora sono contentissima. Ci sono i ragazzi francesi della valle del Roya, portano cibo, fornelli, staranno con i ragazzi alla cambusa. Che belli che sono.
A quell’ora al campo sono pochi, ora sono alla Caritas, mi spiegano. Vado lì così vedo anche l’ambulatorio. Tempo di fare una visita, poi chiude. L’ “anamnesi” la continuiamo fuori. 18 anni, dice, ma mi sembrano meno. La tosse, la bronchite, la sua storia. Non ho antibiotici con me e lì non ce ne sono, gli dico di venirmi a cercare dopo. Poi si torna al campo. È cambiato dall’ultima volta giù al fiume. Ci sono le tende, la cucina, niente bagni, sempre la solita “jungle”. Loro però sono molti di più, anche se mi dicono che non c’è paragone rispetto allo scorso fine settimana. Ma qui è così, si transita. Sono tutte facce nuove.
Questa volta anche tre donne e una pupetta di due anni, una di loro è incinta. C’è un altro medico volontario. Posso andare a vedere un altro ragazzo che ieri è stato in ospedale. Anche per lui visita, medicazione e poi la storia di K., che per me è la cosa più importante. Ha un ascesso, è “brutto”; poi altre lesioni. Mi dice che le ha da più di un mese, da quando era in Egitto. Chiedo il permesso di fare una foto. Gli spiego che le manderò a un’amica dermatologa per un parere in più. Nessun problema. Gli dico che diventerà famoso. Ridiamo.
Nel pomeriggio al campo sono sola. Faccio altre otto visite. Custodisco i miei fogli come tesori. Li trascriverò. Stiamo raccogliendo le storie. Chiedo poi a Big One, il mio interprete di oggi, dove sono i ragazzi fermati ieri alla frontiera. Li hanno portati in ospedale. La polizia li ha picchiati. Voglio vederli. Ne arriva subito uno.
Il solito ragazzo sui vent’anni niente di visibile immediatamente. Mi dice che gli fanno male la schiena e le gambe. Lo hanno colpito lì. Mi racconta la storia, è la solita. Hanno provato ad attraversare la frontiera. È la giornata sbagliata. Mi dice che arrivati al di là del confine la polizia francese li ha picchiati e poi passati ai colleghi italiani che li hanno rilasciati , e così poi di nuovo qui a piedi. Mi dice H. che M. in particolare è stato picchiato più forte. Chiedo a Big One dov’è. Me lo indicano, chiedo se può venire anche lui. Vedo lo zigomo gonfio, l’occhio sinistro semichiuso. Lui parla inglese. Mi racconta dei calci alla pancia e al petto metre era steso a terra. Vedo la loro tranquillità nel raccontarlo.
Leggo la mia incredulità nella loro faccia alla terza volta che gli chiedo “Really?”, mentre penso nella mia testa la pericolosità delle lesioni che percosse simili possono creare. Riprendo in mano il foglio guida, mi serve adesso. Così riprendiamo. Tre visite, tre storie. H., M. ed O., compagni di viaggio, di “plastic boat”, poi di botte. Stanno bene, “a parte” le tumefazioni e le ecchimosi. Mentre raccolgo la storia però a tratti il mio cervello si ferma. Vedo la faccia asimmetrica di M. e gli chiedo di ripetere, mi sono persa. Penso al racconto di chi li ha accompagnati al posto di primo soccorso e non voglio credere a quello che mi hanno detto. Perché i lividi si sentono benissimo, anche sulla pelle nera. E se non li vedi, puoi sentirli: la cute lì è dura, rigonfia rispetto al resto. Non è possibile non refertare queste lesioni. Li ringrazio. Sono contenti della chiacchierata.
La giornata al campo passa, arriva la cena. Io però sto controllando che tutti quelli a cui li ho dati abbiano capito come prendere gli antibiotici, quindi li interrogo. Se lo ricordano benissimo. Rintraccio il ragazzo visitato al mattino e do una scatola anche a lui, scegliendola bene perché qui gli antibiotici sono come la manna.
Nel frattempo uno di loro che non ho conosciuto mi viene incontro con due bei piatti fumanti: “Doctor, doctor! Anche tu mangiare”. Maledetti, mi fanno piangere sempre alla fine.
Si fa sera. Qualche altra visita. Sono troppo stanca, questa volta niente storia. Poi l’assemblea. Anche questa volta come tre settimane fa tira una brutta aria. Oggi il sindaco si è dimesso dal partito. Un’ordinanza di sgombero. Il piano Alfano. Bisogna parlare ai ragazzi. E allora via, a parlare agli shabaab. È tardi, è ora di dormire. Eppure sono tanti, più di cento, anche una donna. Quanta polvere, vorrei un posto dove potermi togliere le lenti a contatto. Sono così stanca che mi addormento. Qualche applauso alla fine di un discorso mi sveglia. Tarjim, tarjim. Chiedono la traduzione arabo-italiano, poi ci sarà anche quella inglese, francese per gli altri volontari. Quest’ultimo sta rivendicando la sua intenzione di rimanere lì e chiedere il diritto alla libertà. Tante idee, è bello ascoltarli. Poi però mi chiamano. Ora hanno smesso di chiamarmi doctor, doctor; mi chiamano per nome. Uno sta male, vado. Torno che l’assemblea è finita. Chissà quanto tempo è passato. Montiamo la tenda, finalmente si dorme.
27 maggio
Ora sono in treno. Si torna a casa. Leggo il titolo del giornale. Si parla di sgomberare. Il piano Alfano va rispettato. Vogliono portarli tutti via. Chiedo a Giulia che si è deciso ieri sera. Mi dice che alla fine, sulle rivendicazioni, è prevalsa la paura e il fatalismo. Se la polizia verrà, verrà ovunque si trovano, tanto vale rimanere lì, “under the bridge”, dove almeno sei già sulla strada per scappare.
Ho negli occhi le immagini delle ruspe di Idomeni, i segni delle percosse.
Mi chiedo se farò in tempo a tornare.