FMI: i tempi stanno cambiando?

Abbiamo incensato in modo esagerato il neoliberalismo?
Se lo chiede il Fondo Monetario Internazionale.
Un’autocritica positiva, sicuramente. Ma è ancora presto
per pensare a drastici cambi di rotta

di Clara Capelli

“The times they are a-changin’”, questi tempi stanno davvero cambiando come cantava Bob Dylan? Sembrerebbe di sì a giudicare dalla reazione di molti osservatori e della stampa internazionale di fronte a un recente articolo di Finance&Development, pubblicazione trimestrale del Fondo Monetario Internazionale (FMI), con un titolo che non può lasciare indifferenti, “Neoliberalism: Oversold?” Abbiamo incensato in modo esagerato il neoliberalismo?

Il FMI è tradizionalmente considerato insieme alla Banca Mondiale uno dei templi della cosiddetta dottrina neoliberale. Per questo l’articolo ha avuto una considerevole risonanza. Il neoliberalismo è in buona sostanza identificabile con il Washington Consensus, i Dieci Comandamenti dei programmi di aiuto ai Paesi in via di Sviluppo, formulati nel 1989 dall’economista John Williams, il quale mise praticamente nero su bianco il pensiero che da circa dieci anni andava affermandosi sia nella teoria economica sia nella formulazione delle politiche: liberalizzazioni e privatizzazioni, disciplina fiscale con conseguente contenimento della spesa pubblica e libera circolazione dei capitali.

Per anni i detrattori del FMI e i critici del neoliberalismo sono stati liquidati come degli ingenui e degli ideologici privi di alcuna comprensione dei principi e delle tecniche dell’economia nota come “neoclassica”. Ora, in un mondo profondamente in crisi – non solo economica -, il FMI sembra ammettere che questi comandamenti non sono proprio incisi nella pietra.

Qualcosa nella raffinata teoria neoclassica scricchiola, forse alcune assunzioni di fondo hanno a che vedere più con la fede che con la scienza: “Policymakers, and institutions like the IMF that advise them, must be guided not by faith, but by evidence of what has worked” (I decisori politici, e le istituzioni come l’IMF che li assistono devono essere guidati non dalla fede, ma dall’evidenza empirica di ciò che ha funzionato in passato). Così termina l’articolo.

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Una conclusione potente, ma che non deve però ingannare né aprire a speranze troppo ottimiste. Nonostante questa pubblicazione sia da salutare con favore affinché contribuisca a un dibattito costruttivo sulla politica economica di questi anni di diffuso malessere, il suo contenuto mostra chiaramente quanto ancora siamo lontani dall’effettiva presa di coscienza che il paradigma economico degli ultimi trent’anni non vada semplicemente corretto, bensì profondamente ripensato.

È innanzitutto necessario leggere il tutto in un contesto più ampio. Gli autori sono Jonathan Ostry, Prakash Loungani e l’italiano Davide Furceri, tre economisti del Dipartimento Ricerca del FMI. Questa sezione si è distinta negli ultimi anni per una serie di paper e rapporti che hanno messo in discussione alcuni punti fermi dell’organizzazione, in particolare sul rapporto tra crescita e disuguaglianza e sulla questione del debito.

Forse non è vero che la crescita è in grado di ridurre le disuguaglianze economiche attraverso meccanismi di mercato, anzi, forse sono le disuguaglianze stesse a rappresentare un freno per la crescita. Forse la disciplina fiscale per la disciplina fiscale non è sufficiente, forse è il caso di prevedere delle disposizioni meno rigorose. Addirittura di ammettere che in alcuni casi si debba concedere a un Paese un parziale debt relief (cancellazione del debito), come si discute ora per la Grecia.

Neoliberalism:Oversold? insiste in particolare su due questioni legate alla dottrina neoliberale e al Washington Consensus, recependo critiche formulate in anni e anni di critica economica: il libero movimento dei capitali e l’austerità. Nel primo caso l’articolo ammette che “the link between financial openness and economic growth is complex” (il legame tra apertura finanziaria e crescita economica è complesso); una frase apparentemente insignificante nel suo disarmante buon senso, ma che non lascia indifferenti se un poco si conosce il pensiero economico che ispira il FMI.

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Forse aprire indiscriminatamente ai capitali internazionali non è una strategia dall’indubbio successo per la crescita economica. Non solo, si argomenta inoltre che “although growth benefits are uncertain, costs in terms of increased volatility frequency seem more evident” (mentre i vantaggi in termini di crescita sono dubbi, i costi legati alla volatilità economica e alle crisi paiono essere più evidente). In altre parole, gli autori riconoscono che il movimento dei capitali contribuisce a rendere più instabile un’economia, perché questi rincorrono per loro stessa natura le opportunità a maggiore rendimento e di certo non perseguono obiettivi di pieno impiego e uguaglianza.

Si tratta di un’affermazione importante a otto anni dalla crisi finanziaria e dopo trent’anni di politiche di liberalizzazione dei capitali che hanno di fatto ridotto sensibilmente la sovranità monetaria di tantissime economie in tutto il mondo, rendendole significativamente dipendenti dalla “reazione dei mercati”.

Interessante è anche la posizione presa rispetto alla questione dell’austerità e della disciplina fiscale. “Economic theory provides little guidance on the optimal public debt target” (La teoria economica non indica chiaramente quale sia il target ottimo di debito pubblico). “The evidence of the economic damage from inequality suggests that policymakers should be more open to redistribution than they are” (Considerata l’evidenza [empirica] dei danni economici legati alla disuguaglianza, i decisori politici dovrebbero essere maggiormente aperti alla redistribuzion)e. Si tratta di due osservazioni chiave: primo, la disciplina fiscale è qualcosa su cui tutti, “di pancia”, possiamo trovarci d’accordo, ma la teoria economica non è ancora riuscita a definirla con precisione, con buona pace di tutti gli obiettivi che sono stati fissati in questi anni come fossero regole auree; secondo, la disciplina fiscale non risolve le questioni delle disuguaglianze in crescita e delle misure specifiche devono essere adottate per la redistribuzione.

Allora i tempi stanno proprio cambiando se anche il FMI traballa nelle sue sicurezze? Non esattamente. È noto come all’interno del FMI esista una sensibile differenza tra il lavoro del Dipartimento Ricerca e l’agenda dei funzionari che si occupano della definizione delle politiche e dei pacchetti di aiuto.

L’economista di Harvard Dani Rodrik, molto conosciuto per i suoi lavori su sviluppo e globalizzazione, ha spesso insistito su questo punto, sottolineando il forte ritardo della “macchina operativa” nel fare proprie le conclusioni dei ricercatori. Un ritratto di Rodrik e delle sue posizioni critiche (ma certo non in modo radicale) rispetto al mainstream compare non a caso nello stesso numero di Finance&Development, per altro a firma dello stesso Loungani. Anche in questo caso il titolo è parecchio evocativo, Rebel with a Cause, Ribelle con una Causa.

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Ma forse la rivoluzione può partire dal Dipartimento Ricerca e dai suoi maverick (dissidenti, anticonformisti), come li definisce il Financial Times? Siamo ancora lontani dalla fine del neoliberalismo, nonostante i titoloni circolati in questi giorni.

L’articolo apre indubbiamente a un dibattito fondamentale su movimenti di capitali e disciplina fiscale, ma le argomentazioni rimangono circoscritte ad ambiti ben definiti.

Si parla del rapporto tra capitali finanziari e crisi, ma gli investimenti diretti esteri sfuggono sostanzialmente alle critiche, ignorando così quando le politiche di attrazione degli investimenti dall’estero nelle economie in via di sviluppo (e non solo) le abbiano di fatto confinate ad attività a modesto valore aggiunto e ridotto contenuto tecnologico, basate sul basso costo della manodopera, senza pressoché alcun controllo sull’utilizzo dei profitti, tendenzialmente sempre rimpatriati alla casa madre. Si parla di redistribuzione, ma la si riduce a interventi a tutela delle fasce più povere e deboli della società, senza toccare la spinosa questione della tassazione su redditi e patrimoni elevati. Di fatto, quello che questa pubblicazione fa è aprire ad alcuni spazi di manovra su movimenti di capitale e disciplina fiscale, senza tuttavia rivederne le implicazioni di sostanza sul rapporto tra mercato e regolamentazione pubblica.

Il secondo paragrafo esordisce affermando “There is much to cheer in the neoliberal agenda”. Si lodano il commercio liberalizzato, gli investimenti diretti esteri e le privatizzazioni, tutte questioni su cui si sarebbe invece da dibattere ampiamente. Impossibile determinare se la frase rappresenti una genuina convinzione degli autori o l’espressione di vincoli dovuti all’architettura teorica portante del FMI, ma non è la questione chiave su cui riflettere.

I tempi non stanno (ancora) cambiando, perché sebbene queste correzioni di rotta siano da accogliere con grande favore, non è possibile lasciarsi andare a facili entusiasmi. Questi tempi di crisi richiedono molto di più di qualche aggiustamento del paradigma economico dominante che lo assolva da quanto successo finora e, ora più che mai, è fondamentale capirne funzionamento e falle per poter elaborare un’alternativa che si sta aspettando da oltre trent’anni.

(Questo articolo riflette
il punto di vista dell’autrice,
espresso a titolo personale)

 

L’immagine in apertura di Christine Lagarde, direttrice operativa FMI, e tutte le altre presenti nell’articolo sono foto di International Monetary Fund tratte da Flickr in CC.