di Christian Elia
Che avesse ancora poco tempo, lo sapeva. E all’ultimo congresso aveva chiesto di non votarlo più, ma lo avevano rieletto con il 90 percento delle preferenze. Come atto di gratitudine estrema, se volete, o come disperata ammissione della mancanza di un’alternativa.
Il 31 maggio scorso è morto, in Algeria, a 69 anni, Mohammed Abdelaziz, il segretario generale del Fronte Polisario, presidente in esilio della Repubblica Democratica Araba dei Saharawi (Rasd). E’ morto l’uomo che è stato il volto internazionale della lotta del Sahara Occidentale, ex colonia spagnola, contro l’occupazione del Marocco.
Ed è difficile, oggi, spiegare che è morto un personaggio chiave di quella che, per motivi differenti, assieme alla Palestina resta una delle ultime lotte dei movimenti di decolonizzazione nel mondo. Una sorta di Arafat del deserto, che però è finito prigioniero non tanto dell’occupante (come è accaduto al leader palestinese negli ultimi anni della sua vita) quanto della totale indifferenza internazionale rispetto alla sua causa.
Metà degli anni Settanta: il regime fascista di Francisco Franco in Spagna è agonizzante, proprio come il suo caudillo. E’ evidente che alla morte di Franco anche la colonia sarà liberata, ma le mire della monarchia marocchina su quel vasto territorio, ricco di risorse (tra le coste più pescose del mondo e con enormi giacimenti di fosfati) e abitato da poche persone, sono palesi.
I saharawi, la popolazione del Sahara Occidentale, organizzano l’autodifesa, sostenuti dall’Algeria, in rotta diplomatica con il governo di Rabat. Le truppe marocchine, il 31 ottobre 1975, irrompono con un contingente di 25mila uomini, in base a un accordo segreto con la Mauritania (con cui dovrebbe spartirsi il bottino) e con il silenzio assenso spagnolo.
A questo attacco militare, il 6 novembre dello stesso anno, segue un’invasione di civili, passata alla storia come la ‘marcia verde’, quando irrompono oltre 300mila marocchini, spinti dal governo di Rabat e dalla prospettiva di lavoro. Il 2 novembre, tra l’una e l’altra invasione, il governo spagnolo aveva decretato il diritto all’autodeterminazione del popolo saharawi, ma il timing tradiva la volontà di non scontentare il prezioso alleato marocchino.
La questione passa alle armi, con l’esercito marocchino contro le brigate del Fronte Polisario, che dalle loro basi in Algeria tengono viva una guerriglia dura fino alla fine degli anni Ottanta. Dai violenti attacchi dell’esercito marocchino, che userà anche il napalm, fuggono i civili saharawi, che dalla fine degli anni Settanta vivono in campi profughi nel deserto algerino attorno alla città militarizzata di Tindouf, in condizioni sempre più drammatiche.
Nel 1991 le Nazioni Unite mediano un cessate il fuoco, dopo che il Marocco, per contenere le incursioni del Fronte Polisario, ha costruito un enorme muro militarizzato nel deserto, a protezione della parte (la più ricca) di Sahara Occidentale occupato.
Da allora i saharawi aspettano il referendum promesso per scegliere il loro futuro, ma c’è sempre un motivo valido per rimandarlo, anche a causa dei trasferimenti forzati di popolazione dal Marocco, voluti dalle autorità per falsare il risultato dell’eventuale referendum.
Della questione si occupa la missione Onu Minurso, da poco rinnovata, ma con sempre meno fondi e sempre meno (se mai ne ha avuto) potere. La questione è andata via via scomparendo dai radar della politica internazionale, perché i saharawi sono pochi e non hanno il peso politico del Marocco.
Dimenticati, nella sabbia, in campi profughi dove le tende vengono lentamente sostituite con edifici più stabili. Dove le ong, ogni anno che passa, diventano sempre meno, perché è praticamente impossibile di questi tempi trovare fondi per una questione che la gente non legge più su alcun giornale.
Ora se ne va anche Abdelaziz, nel bene e nel male un punto di riferimento per tutta la comunità dei saharawi, in esilio o nei territori occupati, o nei campi profughi. Quale eredità lascia?
Quella di una generazione di giovani che hanno perso la fiducia nella comunità internazionale e nel gruppo di combattenti – ormai anziani – che per anni hanno rappresentato i valori della lotta di resistenza, ma che oggi per inerzia si sono trasformati in una classe dirigente lontana dai problemi della popolazione.
In tanti parlano di rischio ‘radicalizzazione’ dei saharawi, come se sempre, anche nel più sperduto angolo del deserto, il problema fosse sempre e solo il rischio che corriamo noi. Senza che l’idea stessa di diritto, di rispetto della legalità internazionale abbia più senso. Eppure essere tutti saharawi sarebbe bello, almeno per dimostrare una volta che siamo capaci ancora di indignarci.