Homeland – Iraq Year Zero

Un documentario per raccontare la vita prima e dopo la guerra del 2003 e la caduta di Saddam Hussein

Di Clara Capelli

Un’opera immensa, un’impresa eroica sia per il realizzatore sia per il pubblico. Cinque ore e mezza di girato per raccontare l’Iraq prima e dopo la guerra del 2003. Homeland – Iraq Year Zero del regista iracheno naturalizzato francese Abbas Fahdel è una lotta contro l’oblio, un tentativo di sottrarre l’Iraq agli stereotipi che l’hanno liquidato a un’odiosa dittatura prima e a un buco nero di terrorismo dopo. La risposta a film come American Sniper o The Hurt Locker, dove l’iracheno è solo e unicamente la piatta figurina del nemico.

Fahdel, originario di Hilla, cittadina che sorge fra le rovine dell’antica Babilonia, aveva già tentato un’operazione simile con Back to Babylon nel 2002, mostrando un Paese segnato da anni di embargo dopo la guerra del Golfo, e We Iraqis nel 2004, sempre sulla vita quotidiana degli iracheni prima e dopo il conflitto. L’attacco americano, la caduta di Saddam Hussein, l’occupazione dell’esercito statunitense segnano uno spartiacque nella storia dell’Iraq; il 2003 è appunto l’Anno Zero: c’è un prima e c’è un dopo. Una vita prima della guerra e una vita dopo la guerra, anche se “noi” lo ignoriamo, anche se non ce l’hanno raccontato.

Il documentario si divide in due parti, Before the Fall e After the Battle. Il regista segue con la sua telecamera parenti, amici, sconosciuti; li filma, li lascia parlare a lungo.

Il risultato è una sorta di enorme album di famiglia, una famiglia allargata a tutto l’Iraq se si vuole, un museo di storie, pensieri, paure, sogni, frustrazioni di un popolo per cui “la guerra è un destino”.

In Before the Fall gli iracheni si stanno preparando alla guerra, gli americani stanno arrivando, pronti ad attaccare. Si scavano pozzi per garantirsi l’approvvigionamento di acqua, si comprano cibo e medicine, si cerca di mettere in sicurezza le finestre perché resistano all’urto dei bombardamenti, apponendovi dello scotch che va a sovrapporsi a quello messo nel 1991, durante la Guerra del Golfo, il cui ricordo è ancora vivo nella memoria di tutti. Nel frattempo si continua a studiare, ci si sposa, ci si vede con le amiche; i bambini iniziano a giocare alla guerra, a fingere di proteggere il loro Paese dagli americani come faranno i grandi, mentre la televisione trasmette in continuazione video e immagini del dittatore Saddam Hussein.

After the Battle ritrova molti degli stessi personaggi dopo la caduta del regime. La telecamera si muove tra edifici distrutti o saccheggiati e la vita che riprende dopo i bombardamenti. Ora in televisione si guardano Al Jazeera, programmi americani e film di Bollywood. Si inizia a parlare delle vessazioni perpetrate dal sistema messo in piedi da Saddam Hussein e dai suoi uomini, delle persecuzioni contro gli oppositori politici e delle esecuzioni.

Ma i cambiamenti politici spalcano le porte a nuove ingiustizie e a farne le spese sono soprattutto i deboli, chi viene accusato di avere avuto legami col partito Baath e si ritrova a non avere alcuna alternativa se non quella di pulire le latrine, muovendosi su un carretto trainato da un asino e inveendo contro le belle vetture guidate un tempo dai notabili vicini a Saddam Hussein.

Le difficoltà economiche incalzano e il risentimento contro gli americani monta, colpevoli di non avere saputo mantenere le loro promesse di pace e prosperità. Un sentimento diffuso di insicurezza si afferma scena dopo scena.

Il regime ha aperto le porte delle prigioni prima di capitolare, si temono furti e rapimenti, si ha paura degli americani che sanno solo rispondere con le armi, spesso in modo decisamente sproporzionato; nel vuoto che si è creato ci si arma e si formano milizie, alcuni passano da un gruppo armato all’altro, a seconda delle convenienza del momento. E gli stessi bambini che giocavano alla guerra finiscono per rimanerne vittime loro stessi.

La visione di Iraq Year Zero è uno sforzo da fare benché in realtà le ore scorrano senza per nulla annoiare. Una visione necessaria per ridare umanità a una popolazione la cui vita ha avuto troppe poche volte la dignità del racconto, per riflettere sul prima e sul dopo di un conflitto e guardare i volti delle vittime di lotte per il potere che la nostra ignoranza e le nostre guerre hanno contribuito a generare.