Effetto Baobab

Il decoro di Roma

di Ilaria De Bonis

In origine era una vecchia vetreria abbandonata, in via Cupa 5. Tra il Verano e la stazione Tiburtina. Nel 2004 diventa il Centro Baobab di prima accoglienza per rifugiati. Da giugno 2015 i volontari hanno iniziato ad accogliere tutti i migranti e rifugiati ‘in transito’ sul territorio romano. La polizia però nel dicembre scorso sgombera la struttura. L’accoglienza risorge spontaneamente come tendopoli all’aperto in via Cupa. Oggi il Baobab è di nuovo a rischio sgombero.

Alla fine, dopo una giornata snervante, culminata ieri notte con balli e canti in strada, è stato chiaro l’intento delle forze dell’ordine: sgombrare solo la parte più visibile del Baobab, sotto le mura e i lumini perpetui del Verano.

Tenere in piedi quella più discreta. Nascosta agli occhi dei distratti. Ma “le azioni della polizia non sono finite. C’è aria di sgombero in via Cupa: chiediamo a tutte le cittadine e a tutti i cittadini di venire qui a portare solidarietà ai migranti e a ripetere alle istituzioni che questo non è un problema di sicurezza, ma una questione umanitaria e sociale”.

L’appello è dei volontari di Baobab Experience. Ma allora che succede in questo campo d’accoglienza improvvisato e amato dai romani? Che la polizia ieri mattina ha fatto un blitz. I migranti ospiti della tendopoli a cielo aperto dell’ex Baobab danno ‘troppo fastidio al decoro urbano’. La gente è smarrita. Gli abitanti della Tiburtina hanno preso a cuore questi ragazzi: migranti in transito per lo più eritrei.

“E’ uno sgombero questo? E’ una pulizia straordinaria? Non ci è dato saperlo – hanno ammesso volontari – Venite per dimostrare che non saranno certi atteggiamenti delle istituzioni a farci cambiare idea. Venite per avere più occhi che controllino come verranno trattati i nostri ospiti”.

Si tenta la normalizzazione dell’emergenza: i volontari rimangono sulla strada, i rifugiati pure. E i Medici per i Diritti Umani (MEDU) con la loro clinica mobile – un camper per fare le visite a bordo – ieri erano parcheggiati in strada per il loro servizio del martedì. Eppure via Cupa rischia grosso.


Migranti in transito

Alì non ha gli occhi azzurri. Ha occhi nerissimi e due baffetti appena accennati, come peluria adolescenziale. Ha 18 anni, viene dal Darfur, zona martoriata del Sudan occidentale. Peraltro ancora in guerra, anche se la chiamano “a bassa intensità”. E’ a Roma da appena tre settimane e fino a ieri dormiva in una tenda da campeggio dell’ex Baobab.

Poi alle sette del mattino sorpresa: arrivano le forze dell’ordine. Molti ospiti dall’Eritrea, dall’Egitto, dal Sudan, e dalla Somalia vengono portati via in fretta. “Controlli”. Dice la questura. “Pulizia. Decenza”. Dice l’AMA. Questione di “decoro”.

Che fine avrà fatto Alì? Ci aveva raccontato del suo viaggio fino a Messina durato sei/sette mesi, con prima tappa in Sud Sudan ed una lunga in Libia (tre mesi), dove aveva pagato 5mila dollari per la traversata sul barcone. Ci aveva detto che le tre sorelle e i due fratelli più piccoli erano rimasti a casa. Neanche una parola su cosa gli fosse successo in Libia.

Lo sguardo gli si rannuvolava al solo pensiero. Allora gli abbiamo chiesto un sogno. “Vorrei lavorare nella banca centrale del Sudan!”, aveva risposto.

Senza alcun dubbio. Come se dicesse “sulla luna”. O a Hollywood. “Non voglio rimanere a Roma, voglio andare in Inghilterra e studiare economia”. Il centinaio di ragazzi – richiedenti asilo e rifugiati – che ormai dorme lì da più di un mese è in transito: la gran parte di loro non vuole rimanere in Italia. Il loro progetto di vita è altrove: Germania, Svezia, Inghilterra.

“Ce l’hai viber?”. “Posso usare viber?”. “E viber me lo apri?” per mandare un messaggio a casa. Gli amici di Alì sono tutti eritrei: hanno capelli ricciuti come lana fitta, occhi grandi da cerbiatto e polsi esili. Chiedono ai volontari di poter usare viber sul cellulare.

E loro a spiegare che hanno solo whatsapp. Alcuni minorenni sono ospiti di Save the Children. Sembrano così piccoli e in effetti viaggiano a metà tra infanzia e adolescenza. Ma hanno già vissuto così tanta vita. Viaggi lunghi mesi, carcere, deserto, trafficanti, mare, miseria, morte dei compagni. La loro resilienza è altissima.

I ragazzi di Asmara usano i social e si divertono a farsi i selfie che vorrebbero postare non so dove. Mohammed (poco più che ventenne) ha lasciato la moglie a casa. E non vede l’ora di riabbracciarla. “Ma non a Roma, a Londra!”, precisa.

Il suo amico Njanu invece ha una foresta di capelli voluminosi da rapper e palleggia di continuo con una pallina da tennis. Quasi tutti scappano dal regime di Isaias Afewerki, il presidente-padrone eritreo, per non fare il servizio militare. Una volta arruolati tra stenti e violenze non ne escono più.

Ghali racconta di avere un bambino piccolo e una moglie in Eritrea ma anche lui andrà a Londra a cercare lavoro e poi li farà venire lì. Si passano la palla mentre chiacchierano in cerchio. Perché scappate tutti dall’Eritrea? Sembrano stupiti della domanda. Perché c’è una feroce dittatura! No?

La giustizia da quelle parti manca del tutto. Il servizio militare dura anni. Alcuni raccontano di carcere e torture.

Secondo Amnesty “migliaia di prigionieri politici e di coscienza sono scomparsi mentre erano detenuti in segreto e in isolamento, senza accusa né processo e senza avere contatti con il mondo esterno”. Ecco perché scappano. La leva è obbligatoria a qualsiasi età.

Una sera di maggio parlo con Amina che è di una bellezza regale. Somala, vive a Roma da vent’anni. “Facevo la badante – dice – Ma la signora è morta. Ieri ho fatto un colloquio da una donna in via di Boccea ma non mi ha presa: dice che sono troppo magra. Non ce la farei a sollevarla”. E’ finita a dormire in strada. Al Baobab anche lei. Poi svela la sua scelta orgogliosa: “ero musulmana ma mi sono convertita al cristianesimo”.

E racconta una storia mistica. Infinita. Alla luce della luna parliamo del suo fidanzato. Il rapporto è piuttosto turbolento. Mi chiede se ne capisco di psicologia. Ci provo. Poi recita a memoria dei passi dei Salmi.

Baobab experience
L’atmosfera non è mai tragica al Baobab. Anche se è emergenziale. L’atmosfera, anzi, è quasi lieve. Di quella lievità simile ad uno stato di grazia. I ragazzi passano il tempo seduti in terra. Ad aspettare la visita medica sul camper o in contemplazione del cielo stellato. Si confidano cose quotidiane. Chiedono scarpe da ginnastica.

Raccontano la loro storia. Giocano a palla. Se ne vogliono andare. Ma aspettano il loro turno per un piatto di pomodori e ceci della mensa improvvisata. O per una maglietta usata. Un paio di jeans. Un antidolorifico.

Dai medici c’è la fila “scabbia”, quella di chi continua a grattarsi la schiena e a ridere, vergognandosi un po’. E poi c’è quella per gli acciacchi più comuni. La precedenza è per le donne incinta, comunque. Che iniziano ad essere numerose. Le volontarie del Baobab sono in parte mamme che a casa hanno mariti che le aspettano. E figli adolescenti. Una di loro dice che prima di andare al Baobab lascia la cena in frigo “se la scalderanno la cena, qui c’è un po’ più bisogno di me”.

Il bello è che i romani qui hanno ricominciato a sentire la fiducia reciproca. Il senso della comunità. Dell’uscire dalla case che nelle case si sta soli. E del ritrovarsi in strada. A fare delle cose. Raccolta vestiti, cibo, medicine. Martedì scorso via Cupa sembrava un’oasi di umanità in mezzo al nulla. Addirittura dal vicino campo nomadi era arrivata una consistente offerta d’aiuto: “alcuni rifugiati potranno dormire tra le roulotte e i prefabbricati”, aveva detto il capo rom. “Gli zingari hanno solo chiesto una condizione: che nessuno sporchi per terra e che si stia in ordine e puliti. Sono più precisi di noi!”.

Chi latitava invece era il comune di Roma. Quando non latita ordina blitz. Gli attivisti del Baobab e MEDU a fine maggio hanno lanciato ancora una volta un appello alle istituzioni (comune, provincia, regione, ministero dell’interno) “affinché si individuino con urgenza soluzioni di accoglienza dignitose per le decine di migranti forzati in arrivo a Roma in questi giorni e costretti a vivere in condizioni disumane per le strade della capitale”.

Sta di fatto che una sede ancora non s’è trovata. E stanotte nessuno sa se dormiranno i ragazzi che arriveranno, e quelli che la polizia ha portato in questura. Si teme qualche azione inattesa, altri blitz.

“Bisogna che finisca la campagna elettorale, forse dopo il ballottaggio…chissà” ipotizzava prima del 5 giugno un veterano fra i volontari. Che era in stretto contatto telefonico con “le istituzioni”. Il problema di Roma è che la politica non deve non può/ non vuole parlare di immigrazione. Non ora.

“E’ argomento tabù, questo, in campagna elettorale. Nessuno azzarda soluzioni. Per non rischiare di perdere le elezioni”. Intanto i flussi di rifugiati con la bella stagione aumentano. E Roma non è pronta. Secondo la Fondazione Ismu in Italia nei prossimi venti anni aumenterà l’arrivo di profughi dall’Africa Subsahariana, in particolare dalla Nigeria.

“Si rafforzerà il flusso nigeriano (da 3mila a 4mila ingressi annui) e si confermeranno attorno alle 2mila unità annue quelli ghanese e ivoriano, mentre il flusso somalo raggiungerà quest’ultima soglia, più che raddoppiandosi nel tempo”, si legge.

Aumenteranno ancora gli sbarchi dal Burkina Faso, dell’Eritrea e del Camerun, oltre che dall’Etiopia e dall’Algeria, “nuovi ingressi origineranno verosimilmente da Togo, Guinea, Liberia e Congo”, dicono.

Non è invasione: è l’inevitabile conseguenza di come va il mondo. E i diritti umani sono anche questo: poter andare e stare dove si è più sicuri. Indubbiamente l’Italia non fa gola in maniera permanente. E nonostante tutto non è pronta neanche per i migranti di passaggio, quelli in transito. Roma non è pronta. La politica non è pronta. E pare non darsene alcuna pena.