Day 19 – Alla fabbrica di feltro

UN DIARIO PER IMMAGINI, IL NEPAL DEL DOPO TERREMOTO E LA VITA CHE CONTINUA

Di Michela Chimenti, da Kathmandu

Incontro Shakti (indiano, 37 anni) quasi per caso, attraverso Gianni, un amico italiano residente in Nepal da più di 20 anni. Lo seguo sulle scale di marmo di un palazzo che in Italia qualunque agenzia immobiliare definirebbe signorile, per scoprire cosa si cela oltre la soglia.

Quando Shakti parla del suo Kriticrafts Women Center lo chiama fabbrica, ma è qualcosa di diverso, qualcosa che noi occidentali conosciamo attraverso le etichette Made in Nepal sui vestiti, ma con cui non dobbiamo mai fare i conti direttamente.

Entro in una fabbrica nepalese per la prima volta.
Il Kriticrafts produce souvenir, soprammobili e piccoli oggetti di feltro per il mercato europeo.

Shakti mi presenta sua moglie Sonu (nepalese, 36 anni): lavoravano insieme in una fabbrica di feltro e nel 2006 decidono di aprire un’attività tutta loro.
Sonu racconta: “abbiamo iniziato senza aspettative, solo sperando che il business andasse bene… Un terno all’otto, insomma!” ride di gusto ripensando agli inizi. Non avevano nemmeno i soldi per mangiare e le lavoratrici inizialmente erano 6. In soli 6 mesi hanno raggiunto il pareggio di bilancio e nel giro di un anno l’attività era a pieno regime, con incremento sia di forza lavoro che di fatturato. In un anno ce l’hanno fatta.

Oggi il Kriticrafts Women Center, piccola realtà dedicata all’impiego femminile, ha un totale di circa 200 dipendenti, tutte nepalesi, suddivise fra una prima fabbrica in Kathmandu (22 operaie su turni), una seconda fabbrica in periferia (35 operaie su turni) e lavoratrici indipendenti (che producono a casa e consegnano i prodotti finiti).

“Abbiamo iniziato proprio con l’Italia – continua Shakti – siete stati i nostri primi clienti, ma da un paio di anni a questa parte abbiamo subìto un arresto generale, sia per la crisi in Europa, sia perché l’Italia in particolare ha smesso di essere interessata ai nostri prodotti. È business: succede…” dice alzando le spalle. “Fortunatamente siamo riusciti a trovare nuovo interesse da parte di quei Paesi che tradizionalmente lavorano e usano feltro e lana cotta e che hanno iniziato a richiederne di più, ma a costi più bassi rispetto alla produzione in loco: i Paesi del nord Europa”.

Nel passaggio da sud a nord Europa, c’è stato il 25 aprile 2015.

Sonu: “Con il terremoto, un anno fa, le cose sono ovviamente peggiorate. Le donne dai villaggi non potevano raggiungere Kathmandu; quelle abbastanza fortunate da essere vicine ad una strada agibile hanno dovuto dapprima fare i conti con l’assenza di carburante, e poi con i prezzi del mercato nero; infine le materie prime, per gli stessi motivi, erano bloccate fuori Kathmandu e senza quelle è impossibile lavorare…”. Sonu lo sa: viene dal distretto di Dolakha, alle pendici del Gaurishankar, la montagna di Shiva, uno dei posti maggiormente colpiti dal terremoto.

Mentre parliamo mi guardo intorno: sono circondata da feltro di ogni forma e colore.

La fabbrica di Kathmandu è una grande stanza dove 13 donne sono sedute per terra, una vicina all’altra, a disegnare modellini, ritagliare e cucire. Chiedo di poter fare delle foto. L’idea iniziale è quella di fare dei ritratti ad ognuna di loro, ma al terzo scatto realizzo che è impossibile: sono troppo vicine l’una all’altra e ogni volta che provo ad inquadrare un volto, una spalla o un gomito dell’operaia vicina entrano nell’inquadratura. Il risultato è una ripresa panoramica in immagini successive di questa catena di montaggio. Sonu mi presenta alle donne, fra risate di timidezza e sguardi di diffidenza.

 

 

Il profitto del Kriticrafts va dai 2000 ai 3000 dollari al mese. Le donne lavorano 8 ore al giorno, con una pausa pranzo di mezz’ora; non hanno un contratto, ma vengono riconfermate di mese in mese. I compensi vanno dalle 7.000 alle 20.000 rupie nepalesi al mese (50/163 euro al mese circa) in base all’anzianità e alla mansione ricoperta.

Ci si aspetta che il reddito pro capite dei nepalesi più poveri scenda da 775 dollari annui (registrati nell’ultimo anno fiscale) a 766 dollari annui. In termini reali quindi, la variazione del reddito pro capite sarà negativa, anche alla luce di un tasso d’inflazione pari al 9.7 percento (fonte Kathmandu Post). Detto in altre parole: solo guardando agli stipendi delle operaie del Kriticrafts, è facile immaginare quanto questi 9 dollari all’anno in meno facciano la differenza.

Shakti ci tiene a sottolineare come le operaie godano di alcuni benefit: sono libere di partecipare ai Festival che ricorrono in Nepal (sono molto diffusi e numerosi) ogni giorno durante la pausa delle 14 hanno diritto ad uno snack (costo aziendale 25 rupie nepalesi, circa 20 centesimi di euro l’uno) e ad una tazza di the. Un altro snack viene distribuito se fanno gli straordinari.

Per il Dashain, il Festival del Sacrificio, la fabbrica paga un mese di stipendio completo alle operaie più anziane che vi partecipano, e mezzo stipendio alle nuove arrivate, e fornisce un vestito nuovo a tutte, indipendentemente dal ruolo svolto. Una volta all’anno Shakti e Sonu organizzano un pic nic aziendale che consta più di 150 partecipanti, una sorta di team building alla nepalese. Dai racconti capisco che il pic nic è una vera e propria festa: si inizia al mattino e si continua fino a tarda sera, e i festeggiamenti sono così impegnativi che affittano pulmini per muoversi tutti insieme ed evitare multe sulla via del ritorno.

Ci spostiamo nella seconda fabbrica, a Tokha: dista 7 km dalla prima, ma a causa della condizione stradale impieghiamo mezz’ora per raggiungerla. Qui si lavora la materia prima e la situazione è diversa rispetto a Kathmandu. Ogni operaia ha una mansione diversa, e lavora sia da sola che in coppia nel processo di insaponatura della lana cotta.

Scopro che si produce un altro importante prodotto in feltro: una pallina bianca che, messa nell’asciugatrice, è capace di assorbire il 60% di umidità in più rispetto al normale ciclo e quindi abbassa sensibilmente i consumi. Shakti mi spiega che i cinesi ne producono di simili, ma di plastica, che non solo sono rumorose e si usurano prima, ma assorbono anche meno umidità rispetto a quelle di feltro. In una stanza trovo centinaia di palline bianche già pronte e imballate. Nella stanza adiacente c’è Nirmala. Sta pesando la lana cotta: 60 grammi esatti per ogni pallina.

Non posso non notare i bambini che spuntano da dietro le porte e i muri, incuriositi ovviamente dalla macchina fotografica. Come in ogni vera fabbrica femminile che si rispetti, il controllo sociale è altissimo: Surpina, 3 anni, è vicino alla madre che lavora; altri bambini sono fuori a giocare, ma sono sempre sotto l’occhio vigile di qualche operaia, indipendentemente dal rapporto di parentela con essi.

Da giornalista dovrei limitarmi a raccontare storie, senza emettere giudizi, e mai come in questa occasione sono felice di non doverlo fare. La condizione nelle fabbriche è senza dubbio toccante e complicata, ma parlando con le donne e vedendo anche il rapporto di Shakti e Sonu con le operaie, il mio pensiero cambia dimensione. Ho trovato spontaneità e serenità nel raccontare le difficoltà e la ripresa di questa azienda, da parte di tutti quelli che ne fanno parte e che ho potuto conoscere direttamente, senza smania di far credere altro rispetto a quello che mi sono trovata davanti agli occhi.

Prima di ripartire verso Kathmandu, mi guardo attorno e faccio a Shakti l’ultima fatidica domanda: “com’è gestire 200 donne?” Lui mi guarda, quasi non volendomi offendere, ma gli scappa un sospiro, e dice: “It’s a very tough job…” (è un duro lavoro…).

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