I monologhi dell’Atomica

Al teatro OutOff di Milano fino al 19 giugno uno spettacolo di e con Elena Arvigo tratto da Preghiera per Cernobyl di Svetlana Aleksievich e Nagasaki, racconti dell’atomica di Kyoko Hayashi

di Antonio Marafioti

Lo spostamento di mattoni rotti sul tavolo di scena alza un pulviscolo marrone che cambia l’aria dandole forma e significato. Non è più invisibile, non è più pulita, non è più vita, l’aria. Diventa, invece, un accento contaminato di radiazioni e morte sul copione. Sul racconto profondo di due donne al tempo di Hiroshima e Nagasaki, al tempo di Cernobyl. Epoche diverse, protagonisti diversi, luoghi diversi. Comune la scia di eccessi, dei responsabili, e decessi, dei civili, a quarantun anni di distanza l’uno dall’altro. La Seconda Guerra che volgeva al termine, gli Stati Uniti che bombardavano il Giappone, tra il 6 e il 9 agosto 1945. La corsa fra Est e Ovest e la tragedia in una centrale nucleare ucraina sotto il controllo dell’Unione sovietica; tanti nomi di presunti colpevoli, nessuna condanna, 25 aprile 1986.
Non c’è niente di questo nei Monologhi dell’Atomica di Elena Arvigo, in scena al teatro OutOff di Milano fino al prossimo 19 giugno. Non c’è tesi politica, non ci sono denunce storiche, non ci sono ricostruzioni. Per scelta, s’intende.

La pièce è piuttosto un omaggio molto ben confezionato a Svetlana Aleksievich e Kyoko Hayashi, due donne protagoniste di quanto accaduto nei loro rispettivi Paesi durante due delle pagine più tragiche del Ventesimo secolo.

Due scrittrici che di quei fatti sono riuscite a raccontare la parte più intima legata a quelle catastrofi: quella dei sentimenti cangianti, degli affetti spezzati, dell’umana reazione di fronte alla morte.
Aleksievich, Premio Nobel 2015, ne narra le vicende in Preghiera per Cernobyl, Hayashi in Nagasaki, racconti dell’atomica. Arvigo trova la sintesi e, in un’ora e venti di spettacolo, grazie a una recitazione intensa, porta il pubblico così vicino alle storie dei sopravvissuti da poterne quasi sentire addosso il peso del cambiamento. Niente fu più come prima per Liudmila, moglie del pompiere Vasilij Ignatenko, chiamato in servizio per domare gli incendi ai reattori della centrale ucraina. Contaminato finirà con i suoi compagni in isolamento nell’ospedale numero 6 di Mosca. Nessuno avvisa le mogli, nessuno le vuole lì a dar conforto ai mariti. Liudmila riuscirà a vedere Vasilij dopo aver pagato una bustarella di tasca propria.

Sono “macerie di ricordi” a ridosso del confine tra amore e morte, fra decine di vite che lentamente si spengono. Eppure “nessuno parlava di radiazioni”, ripete Liudmila, “la gente non vuol sentir parlare di morte e tragedie”.

Come quarant’anni prima a Hiroshima, erano le 8.16 del 6 agosto 1945, e Nagasaki, tre giorni dopo, ore 10.56. I bombardieri inviati dal presidente Truman planano sulla valle di Urakami e l’annientano. Storia vuole che dopo Hiroshima gli Stati Uniti un messaggio con le loro intenzioni lo avessero pure fatto stampare su alcuni milioni di volantini per intimorire il popolo giapponese e obbligarlo a spingere i propri governanti alla resa. A Nagasaki quegli stampati non arrivarono mai. “La gente non vuol sentir parlare di morte e tragedie”, ancora una volta come un mantra. Furono duecentomila coloro che persero la vita sotto le bombe.
Tra i superstiti c’era Hayashi, classe 1930, che della sua visione della tragedia ne fece un’opera d’arte. Arvigo interpreta i suoi ricordi attraversando un complesso, e mai facile, nugolo di stati d’animo. L’attrice, sola sul palco, si muove con destrezza fra i vari registri: rabbia, disperazione, perfino ironia, di un’adolescente diventata donna dopo aver convissuto per settantuno anni con il proprio “nemico interno”.
La radioattività è nei suoi muscoli, nelle sue ossa e, come un altro “Io” nascosto, finisce per condizionare finanche i suoi pensieri, in balia delle correnti create dalla rassegnazione, prima, e dalla speranza, poi. Ce n’è tanta in quell’ultimo filo d’erba che la protagonista vede spuntare spontaneamente dalla terra. “È la forza della vita che nasce dove, si disse, non sarebbe cresciuta nemmeno la gramigna”.

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