di Christian Elia
Due assalitori, quattro morti, più di dieci feriti. Il mercato di Sarona, a Tel Aviv, l’8 giugno scorso. Una strage, poteva essere ancora peggio. La situazione non è mai stata così claustrofobica. Nessuno spiraglio all’orizzonte, nessuna speranza. Non possiamo lasciare che tutto questo vada avanti.
Giovani che non hanno più nulla da perdere, che assaltano chi capita, armati con quel che c’è. Per loro nessun obiettivo politico, nessuna battaglia reale da combattere che non sia una forma di suicidio, di quelli peggiori, portandosi dietro quanti più avversari è possibile.
La situazione è medievale: un’occupazione ogni giorno più normalizzata, una disperazione ogni giorno più solitaria e senza futuro. Questo è quanto resta oggi del conflitto israelo – palestinese, per anni capace di infiammare gli animi di attivisti, di dare grattacapi alla politica internazionale, di attirare progetti di cooperazione. Oggi tutto questo svanisce, lentamente. E resta il MedioEvo.
Mai come adesso, è necessario parlarne. Tenere desta l’attenzione, non lasciare che la luce si spenga, non accettare tutto questo come normale, ineluttabile.
A dirlo e a scriverlo sono stati – anche nelle ore immediate dopo l’attacco – lo stesso sindaco di Tel Aviv, Ron Huldai, e il quotidiano Haaretz. L’occupazione e la situazione di totale assenza di bussola politica, in Israele e nella comunità internazionale, lo scollamento dei giovani palestinesi dai quadri che li hanno rappresentati per anni, stanno sprofondando nel buio un pezzo di mondo, con tutti quelli che lo abitano.
Il 25 maggio scorso, dopo lunghe trattative, il premier israeliano Benjamin Netanyhau ha nominato il ministro della Difesa, scegliendo Avigdor Lieberman, leader del partito di estrema destra Israel Beitenu, grazie al quale il governo consolida la sua maggioranza parlamentare.
Scritta così, può sembrare una normale operazione politica, come accade ogni giorno, in tutto il mondo. Solo che, in Israele, non è così semplice. E Lieberman, non è un fanatico come tutti gli altri.
Per capire, Haaretz, il principale quotidiano israeliano, ha commentato così: “E’ difficile immaginare una decisione più sconsiderata e irresponsabile”.
Dopo il voto di un anno fa, per la seconda volta, il governo Netanyahu ha potuto scegliere tra un accordo con Unione sionista, formazione di centro-sinistra, e l’estrema destra: e per la seconda volta Netanyahu ha scelto il blocco più retrivo della società israeliana.
Solo che nel caso di Lieberman non si tratta solo di un razzista. Lieberman è un razzista, che teorizza di togliere la cittadinanza agli arabi – israeliani, che vorrebbe rioccupare la Striscia di Gaza, rovesciando Hamas con la forza e piallare l’Autorità Nazionale Palestinese, che difende a spada tratta i militari accusati – negli ultimi mesi – di aver ucciso a sangue freddo adolescenti palestinesi anche quando la situazione poteva essere gestita diversamente.
Già questo sarebbe inquietante, ma il fatto che ora Lieberman guiderà la potente macchina da guerra dell’esercito israeliano fa venire i brividi. Da ministro degli Esteri, in due mandati tra il 2009 e il 2015, ha sempre mantenuto le sue posizioni deliranti, da una cabina di regia dove però poteva fare pochi danni.
La guida dell’apparato bellico israeliano, nelle mani di Lieberman, spaventa. Perché per la sua scrivania passeranno i dossier più scottanti degli insediamenti illegali, sia come imposizione di smantellamento (pochi) che come via libera all’edificazione (molti). A lui, poi, spetterà coordinarsi con l’Anp per le informazioni di sicurezza, uno dei pilastri dell’ormai fallito pacchetto di accordi di Oslo degli anni Novanta.
Insomma, il quadro è sempre più fosco, e non lo dicono solo gli attivisti per i diritti per i palestinesi, visto che dopo la nomina di Lieberman alla Difesa si è dimesso Avy Gabay, ministro dell’Ambiente. Il quadro locale è disperato: il blocco di Gaza, che compie dieci anni, ha portato ormai la popolazione sull’orlo della sopravvivenza. In Cisgiordania, negli ultimi mesi, sono decine i casi di adolescenti giustiziati per strada, in un assurdo meccanismo dove a un coltello, quando c’è, si replica con un fucile mitragliatore.
Nel quadro regionale, poi, le cose si commentano da sole con tutti i fantasmi che il governo israeliano ha agitato per la distensione Usa – Iran, che non è chiaro se sopravviverà o meno al mandato di Obama. Per non parlare della Siria, per non parlare dell’Iraq. E Israele, di solito, reagisce con la violenza.
L’idea che ci sia Lieberman seduto dietro quella scrivania non promette nulla di buono.
Ma è anche vero che al di là dell’aspetto pratico, lascia sempre più preoccupati la deriva della democrazia israeliana. Le scelte di Netanyhau, portano sempre più a destra una società civile che nelle sue parti più ragionevoli ha sempre meno rappresentanza.
Il clima di indifferenza internazionale rispetto alla questione israelo – palestinese non aiuta di certo. Un rapporto dell’Euro-Mediterranean Human Rights Monitor, di Ginevra, ha stimato in 65 milioni di euro il valore dei progetti dell’Unione europea in Palestina distrutti dall’esercito israeliano dal 2011 al 2015.
Solo con Margine Protettivo, l’ultimo attacco su Gaza, dell’estate 2014, sono 23 i milioni di euro distrutti dalla macchina bellica d’Israele e dall’Unione nessuna voce si è levata a chiedere conto di questo disastro, nel quale vengono distrutti progetti pagati dai cittadini Ue con le loro tasse per promuovere lo sviluppo della Striscia di Gaza.
Dall’inizio di quella che è stata chiamata Terza Intifada, Intifada dei coltelli o Intifada di Gerusalemme, sono almeno 200 le vittime palestinesi e 30 quelle israeliane. Ma nessuno, a Bruxelles, a Strasburgo o nelle grandi capitali europee, per non parlare del totale disimpegno Usa, ha sentito il bisogno di intervenire in una situazione sempre più brutale.
E non basta. Il disegno di legge del governo Netanyhau sulle organizzazioni non governative rischia di essere l’ennesimo colpo alla parte della società israeliana che continua a chiedere il rispetto dei diritti umani dei palestinesi, la fine dell’occupazione militare e dell’apartheid.
Se fino a ora erano state le organizzazioni palestinesi a essere colpite, ora l’idea è quella di colpire le realtà che ricevono fondi dall’estero. Che sono le più importanti.
E che dovranno dichiararlo, anche se neanche Netanyahu se l’è sentita di sostenere fino in fondo il disegno di legge del suo ministro della Giustizia, Ayelet Shaked, che prevedeva un distintivo pubblico per le ong. Immaginate un ricercatore di B’Tselem, o un attivista di Breaking the Silence, che cammina per strada con un distintivo. Ed è troppo facile pensare alle fasce gialle del Ghetto di Varsavia.
Resta sospesa, per altro, una proposta di legge per la quale diventerebbe possibile revocare il mandato parlamentare ai deputati che, pur regolarmente eletti, non riconoscono la natura ebraica dello stato d’Israele. E’, ovviamente, il caso degli arabi – israeliani.
Mai come oggi è tempo di non dimenticare i palestinesi e il loro diritti. Mai come oggi è tempo di aiutare Israele a non perdere la complessità della sua società. Perché in Israele ci sono voci differenti rispetto a quelle della colonizzazione, dell’occupazione, dello stato di guerra permanente. Ma l’Ue, ad oggi capace solo di chiedere le etichette per i prodotti provenienti dalle colonie illegali (quindi non vietandoli, ma lasciando ai cittadini la scelta). Davvero poco.