di Luca Ondercanin, foto di Tomas Halasz
Come si vive vicino alla più grande centrale nucleare d’Europa, trent’anni dopo l’incidente di Chernobyl?
Reportage dalla cittadina ucraina di Energodar, per la quale l’atomo significa tutto. La seconda puntata. Per leggere la prima, clicca questo link
Il villaggio e la città
Altri sono di un’altra opinione.
Vasiliy Ivanovich Belickiy osserva le due torri di raffreddamento della centrale dalla sommità di una ventosa collina vicino al bacino d’acqua artificiale. Ex poliziotto, ricorda quando la zona era una distesa di prati ricoperti di sabbia, la vista sul fiume Dnieper. Ora l’aria è pregna del vapore che si leva dal sistema di raffreddamento.
Belickiy ha passato gli ultimi dieci anni ha investigare su ciò che – almeno secondo lui – non minaccia solo Energodar, ma anche e soprattutto i villaggi vicini.
“È difficie vivere nella paura”, dice l’attivista in pensione. “A un certo punto ti rendi conto che queste cose ci possono colpire”.
Per questo cerca di andare a tutte le presentazioni pubbliche e spiegare alle persone che rischi corrono. Secondo lui, l’energia nucleare ha cambiato il corso del vento e le emissioni hanno finito per interessare i villaggi limitrofi. In inverno il vapore gela sugli alberi intorno alla centrale, danneggiando il raccolto e gli uccelli, spiega.
La società della centrale ha respinto queste accuse, rispondendo che il vapore e l’acqua del sistema di raffreddamento sono innocui.
Belickiy è con due colleghi in un caffé del vicino villaggio di Vodyane, sorbendo del tè nero, lo sguardo preoccupato. Si sta lamentando dell’incapacità del governo, parlando della “mafia nucleare” che controlla il business e lo minaccia.
Belickiy non è di Energodar e, come molti altri abitanti di Vodyane, non ha mai lavorato per la centrale. Ma capisce perché nessuno vuole affrontare la questione dei rischi.
“Hanno dei buoni posti di lavoro, dei buoni stipendi, un sacco di cibo nei negozi…ma c’è un’altra faccia della medaglia”, aggiunge. Si lamenta che non ci sia alcuna agevolazione per chi abita in un raggio di trenta chilometri alla centrale. Il governo ha promesso delle concessioni diversi anni fa.
“Se il governo decidesse di non estendere la durata di visita dei reattori, dopo il 2020 tutto sarebbe fermo alla centrale di Zaporizhzhya”. Anche se i lavori di dismissione e mantenimento potrebbero richiedere anni, questo significherebbe meno lavoro città, che dipende dal funzionamento dell’impianto.
Gli abitanti dei villaggi intorno a Energodar dicono che non sentirebbero assolutamente la mancanza della centrale. Ivan Ivanovich Goncharenki vive a Vodyane, la sua opinione riguardo alla centrale non è per nulla positiva. È convinto che sia la causa delle nubi che si osservano sempre più frequentemente nell’area.
Il suo giardino ha una diverse serre in plastica, e come tanti coltiva verdura: pomodori, ravanelli, coriandolo. Il deterioramento delle relazioni con la Russia ha colpito anche lui.
“Una volta vendevo i pomodori in Crimea e a Donetsk. Dopo l’occupazione della Crimea ho dovuto trovare nuovi mercati, cosa non facile…e anche molti vicini hanno problemi”, spiega mestamente. Goncharenko non vede alcuna alternativa – non vuole spostarsi in città, né i suoi tre figli sono tentati alla possibilità di lavorare per la centrale.
“Vasil continuerà il business di famiglia, l’altro figlio lavora in ospedale”, dice nella serra e dà una pacca sulla spalla al figlio più piccolo. Vodyane è punteggiata di serre in vetro e plastica, come se ognuno nel villaggio fosse un venditore di ortaggi. Anche gli abitanti di Energodar passano i loro giorni liberi e la pensione a fare giardinaggio.
Piantano patate e cetrioli nei giardini che guardano ai camini della centrale termica, i reattori nucleari qualche centinaio di metri più in là.
Un disastro da dimenticare
Il tempo si è fermato per la vita culturale di Energodar, così anche per altri aspetti della vita della città. I manifesti degli eventi culturali parlano di rassegne canore pomeridiane o mercati rioniari e sono disegnati a mano. Le strade risuonano del rumore dei marshrutkas, minibus quasi tutti di proprietà della centrale nucleare.
Verso le due del pomeriggio si sente della musica provenire da Suchasnik, il centro culturale. L’edificio rispecchia il modello tipico dei centri culturali del blocco sovietico: colonne grigie, un’ampia entrata con le pareti ricoperti da murales, un freddo pavimento di pietra, tende logore e pesanti. Alla prima occhiate sembra vuoto, ma alcuni bambini si rincorrono nell’atrio, la sala principale è gremita di anziani.
Diversi spettatori canticchiano ascoltando una cantante strizzata in un abito blu. Il concerto di commemorazione della popolare Anna German [cantane polacca morta nel 1982, NdT] somiglia piuttosto a un funerale per via del ritratto lugubre sul palcoscenico. Eppure i presenti applaudono con passione la monotona performance della cantante.
Una folata di aria fredda entra quando la porta si apre. Natalia Knysh, una donna sulla sessantina che indossa uno smanicato di pelliccia beige, fa di tutto per tenerla chiusa e impedire alle voci di bambini di disturbare lo spettacolo. Vive a Energodar da più di trent’anni.
“È bellissimo qui. Quando ero più giovane mi piaceva Zaporizhzhya. Ma non è poi così rumoroso e inquinato qui”, dice parlando delle strade pulite della città e dei buoni posti di lavoro che i suoi abitanti hanno.
La centrale nucleare è un argomento frequente di discussione. “Certo che abbiamo paura, ma penso che Chernobyl ci abbia insegnato qualcosa”, aggiunge Knysh. Energodar non ha dimenticato Chernobyl, ma è un pensiero lontano, sepolto sotto i tanti strati della vita quotidiana. Altrove, invece, la memoria è anche piuttosto viva.
“Era il paradiso in terra. Sembrava costruito dagli angeli, non da esseri umani”, ricorda la settantaquattrenne Valentyna Ivanovna Sochenok, mentre odora i fiori del suo giardino. Non parla di Energodar, ma di una città che avrebbe potuto somigliarle trent’anni fa.
Pripyat sarebbe dovuta essere il fiore all’occhiello dell’Unione Sovietica, con larghe strade decorate da fiori, un centro culturale, una piscina, quindici asili nido, un parco divertimenti con autoscontri e ruota panoramica, negozi ricolmi di merce da fare invidia a tutta l’Ucraina e a tutta l’Unione Sovietica.
I murales del centro culturale, chiamato Energetik, sono simili a quelli di Energodar, ma il salone è più modesto. Non ci sono bambini qui, il pavimento è marcito, le sedie sono rotte; al posto del ritratto di Anna German sul palco c’è un polveroso quadro di Mikhail Gorbachev e uno striscione che celebra il sessantesimo anniversario dell’Unione Sovietica. Pripyat è stata ridotta una città fantasma la notte del 26 aprile 1986 dall’esplosione della centrale di Chernobyl, appena a due chilometri di distanza.
Valentyna ricorda bene quella notte. Viveva a Pripyat da quindici anni quando un esperimento andato storto provocò l’esplosione del quarto reattore. “Fui svegliata da una telefonata notturna, ma nessuno parlò dall’altro capo del filo”.
Allora aveva 44 anni, lavorava come infermiera in un ospedale locale. C’erano solo lei e i suoi figli nell’appartamento. Suo marito era nella casa dei genitori a Teremcie, un villaggio a quaranta chilometri da Pripyat. Valentyna udì qualcuno bussare alla porta.
“Aprii la porta e trovai alcuni colleghi dell’ospedale. Mi ordinarono di lasciare l’appartamento al più presto. Mi dissero che si trattava di un’emergenza e che dovevo precipitarmi al lavoro. Abbiamo preso un’ambulanza e svegliato ogni medico della città. Lavorai tutta notte mentre venivano portati i primi feriti della centrale”.
Quando tornò a casa la mattina, osservò che tutti si comportavano come se nulla fosse successo. Molti non avevano idea che solo qualche chilometro più in là i vigili del fuoco e i lavoratori della centrale stavano facendo tutto il possibile non solo per salvare le loro vite, ma anche per sventare una catastrofe di proporzioni ancora maggiori.
Gli esperti concordano questi interventi evitarono il peggio, Kiev avrebbe potuto essere distrutta e la zona radioattiva avrebbe potuto estendersi fino alla Slovacchia o alla Polonia. Una settimana dopo il disastro, il reattore danneggiato iniziò a sprofondare dal suolo in un bacino d‘acqua contaminata usata per il raffreddamento.
Si sarebbe potuta avere una fuga radioattiva enorme. La situazione fu salvata da tre uomini che si tuffarono nel serbatoio d’acqua per drenarla. Non sopravvissero una settimana. La centrale nucleare risultò fatale a una trentina fra lavoratori e vigili del fuoco. Centinaia di migliaia di persone furono costrette ad abbandonare le loro case.
Nessuno era a conoscenza del pericolo allora: gli abitanti di Pripyat furono informati della fuga di radioattività e dell’evacuazione solo 36 ore dopo l’incidente. Nel frattempo si erano divertiti a una fiera in piazza e a un matrimonio, ignari turisti da Kiev e dalla Bielorussia sorseggiavano caffè sulle rive del fiume. Il rumore degli elicotteri e i soldati per le strade non fecero pensare che la vita di decine di migliaia di persone nella zona sarebbe cambiata per sempre.
“Abbiamo camminato intorno alla centrale per circa 10 minuti. Ci hanno detto che suo marito era morto e che dovevamo andarcene. Ci promisero che avrebbero recuperato il corpo”. Valentyna ricorda il giorno in cui una sua collega le chiese di aiutarla a trovare suo marito, che faceva il vigile del fuoco. Era uscito la notte prima per spegnere l’incendio al quarto blocco della centrale.
Valentyna vive nella Zona di Esclusione [detta anche Zona dei 30 km o di Alienazione, è l’area compresa nel raggio di 30 chilometri dalla centrale di Chernobyl, NdT]. Dopo l’evacuazione raggiunse i suoceri a Teremcie. Migliaia di persone dovettero fare i bagagli e ricominciare daccapo altrove, solo pochissimi sono tornati. Alcuni degli ultimi abitanti del villaggio vivono nella fitta foresta alla fine della strada accidentata.
“Non cresce niente al momento. Devi tornare d’estate.” Valentyna si congeda aggirandosi per il giardino e osservando i primi germogli. “Conosco tutto sulle erbe. Le devi raccogliere solo in giorni molto speciali, come San Pietro. Se recito una preghiera quando le raccolgo, allora acquistano proprietà curative”.
Gli animali prima di tutto
Alcune persone che vivono nella Zona di Esclusione sono completamente isolate. I generi alimentari sono consegnati ogni due settimane e i villaggi abitati più vicini distano decine di chilometri. Nonostante i livelli di radioattività della Zona sia ormai nella normi, in pochissimi ritornano ai luoghi che sono stati costretti ad abbandonare così improvvisamente.
“Vuoi mangiare qualcosa o bere della vodka fatta in casa?“, chiede Olga Timorofejevna Sapurova, 78 anni, del villaggio di Kupovate nella Zona. La sua salulte è peggiorata, probabilmente non potrà piantare le patate quest’anno. Potrebbe essere la prima volta in cui dovrà dipendere dall’aiuto degli altri. Ricorda i giorni successivi all’esplosione.
“Ci stavamo giusto preparando per Pasqua: pulivamo, cucinavamo…e poi abbiamo dovuto andarcene”.
Per prima cosa arrivarono i camion e presero gli animali. Le persone dovettero attendere l’arrivo degli autobus. Olga tornò dopo un anno. Ora rimpiange quella scelta. “Sono sola, non c’è nessuno che mi possa seppellire…”
Qualche casa più in là incontriamo Hanna Alexiyevna Zavarotna, 85 anni. La donna tira fuori dal forno una pentola fumante di budino di miglio, che ha preparato con la sorella. “Ci dissero che saremmo tornati dopo tre giorni”, rammenta servendo il budino nei piatti.
Anche lei è tornata dopo un anno. Benché la città fosse stata evacuata una settimana dopo l’esplosione, Hanna non aveva paura delle radiazioni. “La nostra nazione non si fa intimidire da qualche radiazione”, dice aggiustandosi il nodo del fazzoletto verde che porta sul capo.
A parte qualche familiare, solo qualche sparuto gruppo guidato di turisti si avventura qui. I viaggi alla ricerca del brivido adrenalitico nei ditorni di Chernobyl sono da anni un’attrazione popolare.
Le babushka lavorano i loro piccoli fazzoletti di terra, a volte con l’aiuto dei vigili del fuoco di Chernobyl. Se riescono a trovare un passaggio possono andare in un negozio di alimentari a fare la spesa. Poiché alcune migliaia di vigili del fuoco vivono ancora nella Zona di Esclusione, diversi esercizi sono rimasti aperti.
I livelli di radioattività raramente ormai superano quelli di Kiev, solo per fare un esempio.
Con un pò di fortuna riescono persino a recarsi alla chiesa di Sant’Elia. Non ci sono più abitanti in quella che una volta era una ricca e importante cittadina, ora qualche lavoratore garantisce che tutto funzioni all’interno della Zona.
Il sabato si possono ascoltare i salmi in un’altra chiesa ortodossa, centinaia di chilometri più a sud. In quella che è la capitale ucraina dell’energia, è in corso una processione, seguita dal patriarca in oro e viola.
I fedeli portano con sé icone di santi. È un giorno speciale per gli abitanti di Energodar: una preziosa icona della Theotokos, la Vergine Maria ortodossa, è arrivata da Zaporozhye.
Il dipinto incorniciato e protetto da un vetro è protetto da guardie di sicurezza. Lo tirano fuori dalla macchina, girano intorno alla chiesa di mattoni con il tetto di piastrelle blu ed entraro.
I canti sono emozionanti, interrotti solo dal pianto dei bambini, dalla disciplina del patriarca e da un’anziana donna che raccoglie le offerte per la costruzione della nuova porta. Se qualcuno ha un familiare partito per il fronte, con una piccola somma potrà farne incidere il nome sulla porta.
La vita religiosa a Energodar è strettamente legata a quella della centrale nucleare, che ha finanziato il monumentale tempio incompiuto situato lì accanto.
La centrale organizza eventi culturali e sportivi. Ricorda in qualche modo i tempi del socialismo, solo che la gente comune e i lavoratori sono stati sostituiti dai cliché sui dipendenti e il profitto. Si possono ancora trovare le stelle rosse sovietiche qui.
Fine della seconda parte
Questa storia è stata scritta con il sostegno di CEE Bankwatch Network