tratto da GlobalProject
Come accade in molti paesi del cosiddetto terzo mondo, i diritti minimi dei lavoratori marocchini sono regolarmente calpestati a scapito di un codice del lavoro in linea con le convenzioni internazionali firmate dallo stato.
Il tasso di sindacalizzazione della forza lavoro non supera il 10%. Questa debolezza è dovuta da un lato alla scarsa legittimità di cui godono le confederazioni sindacali – a causa della mancanza di democrazia interna e in diversi casi della corruzione – e dall’altro dalla grande diffusione delle pratiche antisindacali più violente da parte del patronato.
Nonostante le dichiarazioni verbali e le formalità legislative, lo stato non ha finora ritenuto necessario alla propria legittimità un intervento significativo per l’applicazione dei diritti legali nel settore privato. Nonostante il diritto allo sciopero sia garantito dalla costituzione, l’articolo 288 del codice penale di fatto lo criminalizza.
La magistratura è spesso corruttibile e nella maggior parte dei casi comunque dalla parte dei padroni, che di norma fanno parte di famiglie con solidi collegamenti ai vertici dello stato.
Ben il 90% della popolazione attiva è occupato nel privato e il 40% nel settore primario, composto soprattutto gran parte di agricoltura e pesca, settori strutturalmente difficili a organizzarsi. L’industria occupa solo il 20% della forza lavoro e le imprese con più di 100 lavoratori solo il 17%.
La diffusione cronica dell’analfabetismo, più alta in Marocco che negli altri paesi del Nord Africa, è un altro potente ostacolo all’attivismo sul posto di lavoro. La sfida per la sinistra marocchina è quella di democratizzare le confederazioni esistenti – in particolare le due più grandi, l’“apolitica” Union Marocain du Travail (UMT) e la socialista Confédération Démocratique du Travail (CDT) – o creare un sindacato radicale all’esterno delle centrali tradizionali. Il dibattito tra i militanti sulla strategia migliore da perseguire è tuttora in corso.
Nel 2011, nel clima di ribellione instauratosi con l’avvento della Primavera Araba e del Movimento 20 Febbraio, si è registrato un record storico di scioperi (474 episodi per 276.928 giornate di lavoro perdute).
Molti lavoratori hanno tentato per la prima volta di creare rappresentanze sindacali sul posto di lavoro, scontrandosi spesso con il licenziamento immediato dei loro rappresentanti sindacali. Ma nel contesto di relativa apertura del 2011, il bilancio complessivo è stato quello di un temporaneo progresso dei diritti.
Ma in assenza di un vero cambiamento politico al livello del regime, le concessioni sono state ritirate appena possibile e molti tra i lavoratori più combattivi sono stati spazzati via dai licenziamenti abusivi. Sono riportati qui di seguito alcuni esempi di importanti conflitti ancora aperti, anche a scopo di ampliare per quanto possibile la visibilità di queste lotte e le dichiarazioni internazionali di solidarietà.
Maghreb Steel
Maghreb Steel è un’acciaieria di Casablanca fondata nel 1975, ha oltre 1400 dipendenti diretti e fa parte del gruppo di aziende della famiglia Sekkat. Come molti padroni del paese, i Sekkat non hanno mai tollerato la presenza sindacale in nessuna delle loro aziende.
I lavoratori Maghreb Steel hanno tentato di creare una rappresentanza sindacale nel 1984 e nel 2011, ma in entrambi i casi tutti i rappresentanti furono immediatamente licenziati. Il 26 marzo 2015 gli operai hanno nuovamente deciso di fondare una rappresentanza sindacale (in questo caso affiliata all’UMT) per fare fronte all’abolizione di diversi bonus, a una politica delle promozioni arbitraria e discriminante, all’assenza di un comitato di igiene e sicurezza, al rifiuto della dichiarazione degli incidenti sul lavoro dietro minaccia di licenziamento, al licenziamento ingiustificato di circa 400 operai.
Gli incidenti sul lavoro hanno visto anche numerose amputazioni.
Di fronte alla creazione del sindacato, l’azienda ha nominato direttore Ammar Drissi, già noto per il suo pugno di ferro nei confronti delle organizzazioni dei lavoratori. A fine luglio Ammar ha licenziato quaranta lavoratori tra i più attivi, provocando così uno sciopero di 24 giorni al termine del quale tutti i licenziati sono stati reintegrati e la direzione si è impegnata a rispettare la legislazione del lavoro.
Ma dopo la ripresa del lavoro, la direzione si è cimentata in una lunga serie di provocazioni arbitrarie culminate nel licenziamento ingiustificato di sette lavoratori tra cui due rappresentanti sindacali. Il 19 dicembre 2015 è stato così dichiarato un secondo sciopero, che dura fino ad oggi con 760 lavoratori ancora in lotta.
Maghreb Steel ha rifiutato di negoziare con gli scioperanti e ha assunto centinaia di lavoratori interinali per rimpiazzarli, in violazione del codice del lavoro marocchino che vieta nuove assunzioni durante uno sciopero del personale. La direzione ha inoltre accusato alcuni scioperanti di aver rubato una fonte radioattiva, cosa che ha alquanto allarmato le autorità data la pericolosità dei materiali in questione. Ma le indagini non hanno prodotto alcun risultato e le accuse sono cadute.
Dopo il fallimento della conciliazione a tutti i livelli, gli scioperanti sono passati alla mobilitazione di strada con numerosi presidi di fronte alla prefettura e alle filiali delle banche che detengono quote di Maghreb Steel. È in questo contesto che le forze dell’ordine hanno represso i presidi pacifici del 12 e del 17 maggio, facendo diversi feriti tra i lavoratori.
I lavoratori Maghreb Steel richiedono la reintegrazione di tutti i licenziati, il rispetto della legislazione sul lavoro e delle libertà sindacali e l’avvio di negoziazioni serie sulla loro piattaforma rivendicativa per il miglioramento delle condizioni di lavoro. Essendo Maghreb Steel una delle più importanti aziende manifatturiere del paese, si tratta di una lotta estremamente importante per la libertà sindacale in Marocco.
Doha
Lo stabilimento Doha di Agadir è una fabbrica di inscatolamento pesce, frutta e verdura. Fa parte del Groupe Bicha, fondo di investimento tra i più potenti della regione, di proprietà della famiglia omonima. Nel 2011 la fabbrica aveva tra i 1000 e 1200 dipendenti a seconda delle necessità, la grande maggioranza donne. La fabbrica era un esempio estremo dell’assenza di rispetto della legislazione sul lavoro.
Secondo le lavoratrici, centinaia di dipendenti venivano riassunti con contratti temporanei oltre i limiti legali, la paga oraria era di circa 60 centesimi di euro quando il salario minimo legale era di circa un euro all’ora. Alcune operaie non godevano di previdenza sociale mentre alle altre venivano versati solo i contributi per una minoranza delle ore di lavoro effettive. Non c’erano vacanze pagate, bonus per gli straordinari, né bonus per il lavoro nei giorni festivi. La giornata lavorativa durava anche 17 ore. Le norme di sicurezza non erano rispettate e gli incidenti erano frequenti.
L’incidente più comune era la perdita di dita nelle macchine, ma una lavoratrice ha addirittura perso una gamba. In caso di infortunio, la direzione cercava di risolvere la questione “amichevolmente”, pagando un’indennità in nero. Molte operaie sono state vittima di molestie sessuali.
Nel 2011, le lavoratrici Doha decisero che era giunto il momento di alzare la testa e fondarono una rappresentanza sindacale affiliata alla CDT. Il giorno stesso la direzione licenziò tutti i rappresentanti sindacali, al ché la mano d’opera entrò in sciopero chiedendo la reintegrazione dei licenziati e la fine di tutte le violazioni della legislazione del lavoro.
Inizialmente la direzione rifiutò di negoziare, ma di fronte al successo dell’azione e al sostegno del Movimento 20 Febbraio e della cittadinanza, fu costretta a cedere dopo venti giorni di sciopero. La società riconobbe il sindacato e cominciò a redimere le violazioni dei diritti minimi.
Ma nel 2014 diversi segnali cominciarono a far presagire che la direzione manovrava per riportare la fabbrica alla situazione pre-2011. Furono assunti nuovi lavoratori a tempo determinato che, incitati dai capi, provocavano e insultavano i militanti sindacali.
Un esperto legale chiamato dall’azienda scriveva rapporti con valore giudiziario contro i lavoratori per i motivi più futili; bastava andare in bagno per essere accusati di interruzione non autorizzata del lavoro. La direzione rifiutava di trattare questi problemi con i rappresentanti sindacali. In linea con la tendenza più generale, il clima dittatoriale faceva gradualmente ritorno in fabbrica.
Venerdì 6 marzo le lavoratrici tennero un presidio a fine turno all’esterno della fabbrica per chiedere l’apertura di una trattativa. Il giorno dopo – che a Doha era ovviamente lavorativo – i lavoratori trovarono i cancelli della fabbrica chiusi. La fabbrica riaprì soltanto il mercoledì seguente, ma l’ingresso fu vietato a 51 lavoratori, compresi tutti i delegati sindacali.
La direzione dichiarò l’avvio di un processo di licenziamento per motivi disciplinari, accusandoli ingiustamente di avere ostacolato il lavoro degli altri dipendenti.
Il 16 marzo circa 560 operaie entrarono in sciopero di solidarietà con i licenziati. Il giorno stesso la direzione dichiarò il licenziamento di tutti gli scioperanti e assunse illegalmente circa 500 crumiri.
La questura avviò poi quattro processi contro i lavoratori. Il primo ha visto la condanna dei 51 primi licenziati a un mese di prigione (sospesa) e al pagamento di una multa per violazione della libertà di lavorare. Nel secondo i rappresentanti sindacali sono stati condannati a un ulteriore mese di prigione (sospesa). Nel terzo il segretario regionale della CDT, Abdellah Rahmoun, è stato condannato al pagamento di un risarcimento di 278.000 euro. Dato che non può pagare, la corte ha chiesto la confisca della sua abitazione. Nel quarto processo la rappresentanza sindacale Doha è stata dichiarata illegale e dissolta.
Le lavoratrici e i lavoratori Doha non riconoscono i licenziamenti, avvenuti nel contesto di multiple violazioni dei loro diritti legali – e si ritengono tuttora in sciopero. Chiedono la reintegrazione di tutti i licenziati e l’assoluzione completa in appello di tutti gli accusati.
Textile Manufacturing
Textile Manufacturing era un’azienda tessile di Tangeri con più di 200 dipendenti. Le operaie erano tutte donne e il salario medio era di circa 240 euro mensili.
Nel 2013 il padrone ha annunciato il fallimento, proponendo delle indennità di licenziamento molto inferiori a quelle previste dalla legge, soprattutto perché molte operaie avevano oltre 20 o anche 30 anni di anzianità. 55 operaie rifiutarono l’offerta e si rivolsero all’ispettorato del lavoro e al tribunale. La corte dichiarò che la vendita dei macchinari della fabbrica avrebbe dovuto servire al pagamento delle indennità, ma nel frattempo il padrone aveva rubato le macchine più costose e ha aperto un’azienda di ceramiche. Ormai da 19 messi le lavoratrici si danno il turno in un presidio permanente all’esterno della fabbrica per sorvegliare le macchine rimaste ed esigere le compensazioni dovute.
È possibile firmare un appello per le operaie e gli operai Doha a questo link