Periferia di Parigi: la riscoperta dell’identità attraverso la riflessione critica sul proprio luogo di residenza
di Valeria Nicoletti, da Parigi
Un mulino del Duecento, le altezze delle case popolari, la riscoperta dell’identità attraverso la riflessione critica sul proprio luogo di residenza. Un pomeriggio a La Courneuve, alla periferia di Parigi, in compagnia di Vincenzo Sassu e dell’associazione FACE.
“Ho una predisposizione alla periferia”, esordisce Vincenzo, “sono attratto dal limite, dal confine, che è sempre un luogo di scontro, ma anche di cambiamento”. Da qui la decisione di vivere alle porte di Parigi, a La Courneuve, periferia nord, “una delle cittadine francesi con il più alto numero di nazionalità”, nel cuore della cité des 4000, una cifra eufemistica per indicare la densità della popolazione in quest’area a pochi minuti dalla lontanissima Parigi, al di là del famigerato boulevard péripherique, “una barriera sociale, più che geografica”.
Vincenzo Sassu, origini sarde, è un periferico di natura e per vocazione. Dopo gli studi a Londra, è tornato a Parigi, anzi appena fuori le porte della città per amalgamarsi a quella banlieue che sentiva più vicina, per affinità geografiche, culturali, linguistiche, un paesaggio che aveva già esplorato per la sua prima tesi di laurea, diventata un libro, Là-bas la banlieue, un viaggio nella periferia parigina dopo le rivolte del 2005 e l’analisi della descrizione mediatica degli scontri.
È stato il desiderio di continuare a immergersi nella periferia di Parigi, a sezionarla quasi e a diventarne parte, che ha spinto Vincenzo a contattare l’associazione no-profit FACE, un acronimo che sta per French American Creative Exchange, fondata nel 2001 dall’artista texano Monte Laster, anche lui ormai autoctono de La Courneuve.
La sede operativa dell’associazione si trova nel cuore della cité des 4000, l’impopolare quartiere vittima di una discussa operazione edilizia che negli anni Sessanta ha soffocato l’emergenza abitativa con la costruzione di quattro giganteschi insiemi di case popolari, una totalità di circa 4000 alloggi, occupati quasi interamente da immigrati nord-africani, una sorta di ghetto nel ghetto, un fallimento delle politiche urbanistiche e sociali della Città di Parigi.
Debussy, Ravel, Balzac, i nomi, francesissimi, degli edifici, che segnavano una sorta di appartenenza. “Ogni edificio ha un suo linguaggio, un suo codice”, spiega Vincenzo, “prova a chiedere a uno dei ragazzi là in fondo da dove viene, ti risponderà con il nome del palazzo”, un’etichetta sopravvissuta ancora oggi, dopo la demolizione, iniziata negli anni Ottanta, della maggior parte dei palazzi, in vista di una non meglio specificata riqualificazione.
Vincenzo punta con il dito i palazzi superstiti dell’ondata di riabilitazione e rinnovamento della cittadina, oggi al centro di una speculazione edilizia estera, che ha messo gli occhi su questa piccola cittadina, posta comodamente a circa cinque minuti di treno da Parigi. “È probabile che molti alloggi saranno distrutti e la maggior parte degli attuali inquilini non avrà le capacità finanziarie per poter vivere nei nuovi”, racconta.
La banlieue si allontana, come a volerla eliminare dalla vista, per potersene forse dimenticare.
Riportarla al centro del dibattito, spogliarla d’ogni stereotipo e incentivare alla riscoperta della propria identità le comunità locali, è invece l’obiettivo di FACE che, attraverso micro-progetti artistici, una costante riflessione politica e soprattutto lo scambio e il confronto tra residenti e professionisti del mondo dell’arte, della ricerca e del giornalismo, accende i riflettori su urgenze sociali come la progettazione urbanistica e le politiche d’integrazione.
Tutto inizia al mulino Fayvon, al centro della cité. Il canale Croult, che un tempo lo riforniva d’acqua, è stato sepolto in seguito alla massiccia iniziativa pubblica di ripopolare il quartiere. Costruito nel Duecento, il mulino si staglia con il suo profilo impertinente, il tetto spiovente e il giardino in fiore accanto alle alte sagome delle case popolari della città.
Negli anni Novanta, Monte Laster, presidente dell’associazione, ottiene in concessione il mulino e ne fa il suo atelier, nonché, dal 2001, la sede amministrativa del progetto. Sono i ragazzi di FACE a ricostruirlo, a installare acqua e bagno, riparare vetri e finestre rotte, creare un giardino tutt’intorno.
Il mulino diventa un luogo d’incontro, un punto di partenza, un rifugio, dove germogliano progetti, nascono amicizie o semplicemente ci si ritrova la sera intorno a un bicchiere di vino. Solo da qualche mese la municipalità della Courneuve ha riconosciuto il lavoro fatto, concedendo il mulino all’associazione.
Monte Laster, artista e architetto texano, si trasferisce a Parigi nel 1989. Solo qualche anno dopo scopre La Courneuve, scenario prediletto anche da Godard, e s’incunea nel tessuto della cité. Fine ultimo e filo conduttore di tutti i progetti di FACE è l’interazione con il paesaggio urbano, fatto di architettura, storia e soprattutto esseri umani.
Da questo scambio osmotico, tra periferia e sguardi venuti dall’esterno, è nata una prima mostra, Banlieue is Beautiful, esposta al Palais de Tokyo di Parigi nel 2015, una sorta di scultura sociale che ha portato nel tempio dell’arte contemporanea parigina le voci dei ragazzi della periferia.
Non solo. La riappropriazione dell’identità, lo scrollarsi di dosso l’immagine prefabbricata dal racconto mediatico, avviene soprattutto attraverso la riscoperta del territorio. Nascono da questa esigenza le Balades Urbaines, passeggiate urbane in periferia, una vera e propria visita guidata nella banlieue, insieme ai suoi abitanti, che spesso ne conoscono solo una magra porzione, ma anche parigini che, dopo il boulevard, entrano in terra straniera.
Tirare fuori da quel tutto indistinto raccontato sui giornali, una personalità, un volto, una storia, un’esistenza intera. È questo, invece, lo spirito di Banlieue93, il progetto di fotogiornalismo di Vincenzo, sui ragazzi del dipartimento 93 della periferia parigina. Ritratti, primi piani, istantanee di vita quotidiana, la periferia resta a fare da sfondo e spesso scompare. La scenografia diventa la cameretta dei ragazzi, “il primo posto dove hanno cominciato a sognare, a fare progetti”, a immaginarsi per quello che sono davvero, prima che qualcuno venisse a raccontarglielo.
I ragazzi ritratti da Vincenzo hanno dai 20 ai 27 anni, sono quasi tutti francesi ma cresciuti in famiglie miste o nordafricane. “Semplicemente ragazzi come tutti gli altri”, racconta Vincenzo, “con i propri sogni, i dubbi, le paure del fallimento, di non farcela”.
Tony Karino, 27 anni, rapper e compositore, è stato uno dei primi amici di Vincenzo a La Courneuve. “Il progetto di Vincenzo mi è piaciuto sin da subito”, racconta, “è strano come sia più facile per qualcuno con uno sguardo esterno raccontare la banlieue, attraverso la bellezza e l’arte, senza scivolare nel cliché”. Una collaborazione, umana e professionale, che ha influito anche sulla musica di Tony.
“Nel rap, c’è una tendenza all’ostentazione, alla sovraesposizione”, continua, “ho capito che si può far passare un messaggio anche senza forzare, senza cedere all’esagerazione gratuita”. Il riferimento è a una decina di giornalisti francesi, che hanno voluto raccontare la banlieue in poche righe, facendo della caleidoscopica realtà umana della periferia un unico fascio di problemi razziali.
“Vincenzo è un umanista”, conclude, “ci ha aiutato a riscoprire quello che siamo”. La pensa allo stesso modo Niffay, 22 anni, francese, sorvegliante al liceo, studentessa ma soprattutto piccola stella della canzone. È appena uscito il suo ultimo clip, Un truc de fou. “Questo lavoro di decostruzione dell’immagine è utile non solo a noi, ma a tutti, cosa ci può dire del mondo un ragazzino che non ha mai lasciato i quartieri residenziali di Parigi?”.
Anche Niffay insiste sulla necessità di riappropriarsi della propria identità, dopo la razzia dei media nelle periferie: “è stato come guardarsi allo specchio e non riconoscersi, si parlava di noi ma era come se parlassero di qualcun altro”. Anis, 25 anni, francese, lavora a teatro.
“Sono convinto che sia la sua prospettiva esterna a fare di Vincenzo un buon narratore”, ci dice, “e io stesso a teatro, dopo un periodo di isolamento, proprio grazie al lavoro fatto sugli stereotipi, ho riacquistato fiducia e mi sono sentito capace di interpretare ogni personaggio, ogni sfumatura, essere tutti e nessuno”.
Grazie a Laster, FACE ha avuto l’opportunità di lavorare con realtà urbane simili, oltreoceano, come il quartiere di Harlem a New York. L’ultima tappa americana è stata il Texas, patria di Laster, dove Tony, Niffay e altri tre amici sono partiti alla scoperta dell’America profonda per creare un racconto, decostruire una mitologia contemporanea e allenare lo sguardo critico e inventivo fuori dai confini familiari della banlieue.
L’ossessione per le armi da fuoco, il paesaggio arido, le corna del bufalo, i serpenti, che dalle parti del ranch di Laster, sono tra i più velenosi di tutti gli Stati Uniti, la follia del rodeo: questi alcuni dei luoghi comuni, dei segni, dei miti, che sono stati decostruiti nel corso delle due settimane, per costruire un linguaggio nuovo, per imparare, anche in terra straniera, nel deserto texano come nella banlieue parigina, a riconoscere lo stereotipo dalla realtà.