Perché il Marocco non è un caso da elogiare
di Francesca Tomasso
Articolo di risposta al reportage di Pietro del Re, dal titolo I miracolo del Marocco sotto il re Mohammed VI: cresce e resiste alla Jihad
Ci sono degli articoli che ti fanno venire voglia di prendere carta e penna e rispondere, altro non si può fare, articoli che ti obbligano a non tacere; il reportage di Del Re pubblicato da Repubblica è uno di quei casi, e non solo perché in Marocco ho vissuto e fatto ricerca, ma perché tessere le lodi a governanti che regnano con tutti i mezzi dell’autoritarismo, non ha niente di lodevole.
In modo ancora più urgente dopo la vicenda di Giulio Regeni, credo sia importante ribadire come l’informazione – e quindi che ne fa parte attivamente, chi ci lavora – debba avere l’onestà intellettuale di non fare l’elogio di un regime solo perché economicamente fa crescere il Pil (il che accade anche per congiunture macroeconomiche internazionali, al di fuori della volontà dei governi nazionali) né di considerare la risposta repressiva al terrorismo come l’unico criterio per valutare la bontà dell’operato di una classe politica.
Ma andiamo per ordine. Il reportage di Del Re inizia così: “Tra i giovani marocchini, che sono più del 30 per cento della popolazione e che la stampa definisce la ‘generazione M6’, re Mohammed VI fa tendenza (…) Ma può bastare la popolarità di questo sovrano dal volto carnoso e l’aria compiaciuta a spiegare il ‘miracolo’ di un Paese dove dal 2000 il Pil è raddoppiato, dove non c’è stata nessuna devastante ‘primavera araba’ e dove negli ultimi anni la polizia è riuscita a sventare ogni attacco terroristico?”.
Che Mohammed VI faccia tendenza – almeno tra una parte della popolazione e tra una parte dei giovani, sicuramente non tra tutti – è scuramente vero, ma bisogna aggiungere ma ci riesce per diversi motivi, il primo dei quali è che nella sua figura racchiude populismo e peronismo.
È soprannominato il “Re dei poveri”, anche se il fatturato delle aziende da lui possedute (che fanno parte della holding reale) gli ha permesso di accumulare un patrimonio di 2,1 miliardi di dollari, rendendolo uno degli uomini più ricchi d’Africa e del mondo arabo.
Questi i dati della rivista Forbes, che calcola solo i patrimoni personali stimati sulla base di documenti pubblici, e che quindi non tiene in considerazione i ricavati messi in conti esteri, quelli per esempio passati attraverso il tesoriere di Stato, Mounir Majidi.
Majidi, che tra l’altro è finito tra i file Panama papers perchè come amministratore di una società con sede a Lussemburgo, la Immobiliére Onion Spa, nel 2003 prese in prestito 42 milioni di dollari da una compagnia del gruppo Mossack-Fonseca.
Majidi è anche a capo dell’associazione senza scopo di lucro Maroc Cultures, che ogni anno organizza, per due settimane, il festival di Mawazine. Quest’anno, tra gli altri, si sono esibiti sui palchi di Rabat e Salé Chris Brown, Iggy Azalea, Maitre Gims, Christina Aguilera.
La holding reale (SIGER) possiede aziende e compagnie nell’agroalimentare, nei trasporti, nelle telecomunicazioni, nei servizi bancari e finanziari, nella distribuzione, nel settore immobiliare.
Bisogna poi spiegare che parte della sua popolarità, Mohammed VI la deve a una raffinatissima operazione di restyling che ha effettuato, proponendosi fin dalla sua salita al potere, come qualcosa di totalmente altro rispetto alla figura e al regno del padre, Hassan II.
Quest’ultimo aveva fatto dell’espressione ‘stato profondo’ la sua dottrina di governo, i suoi ministri degli Interni e della Difesa, così come le alte gerarchie dell’esercito, della polizia e dei servizi segreti, si erano resi responsabili di quelli che sono poi passati alla storia come gli “anni di piombo” con arresti illegali, prigioni segrete, torture, desaparecidos.
Mohammed VI, nel 2004, fonda l’Instance de Reconciliation et Verité, l’Istanza di verità e riconciliazione, che vuole fare luce sui crimini di stato commessi sotto il regno del padre e “riconciliare il popolo marocchino con il proprio passato”, ma non ha valore giudiziario né giuridico, non è cioè un tribunale, né un organo persecutorio.
“Quando nel 2011 i Paesi arabi furono travolti dalle loro rivoluzioni – continua l’articolo di Repubblica – qui le riforme erano già state avviate da una decina d’anni. Il re e suoi consiglieri avevano avuto la chiaroveggenza di anticipare le richieste dei marocchini, e di rispondervi con una riforma della Costituzione che garantisce più libertà e più diritti, soprattutto alle donne, ma anche con l’abolizione della poligamia e dei matrimoni di chi ha meno di 18 anni.”
La riforma della Costituzione c’è stata, è vero, ma non ha preceduto di una decina d’anni lo scoppio delle proteste, è arrivata nel giugno 2011. Quando cioè gli scioperi e le manifestazioni nelle grandi città, a Casablanca, a Rabat, a Agadir, nell’aristocratica Fes, a Tangeri, avevano già registrato decine di migliaia di presenze e dove la polizia aveva attaccato i manifestanti in nome della dottrina Basri (Driss Basri, Ministro dell’Interno sotto il regno di Hassan II, espressione di quello stato di repressione di cui si parlava sopra).
Quando il Movimento 20 Febbraio, leader delle rivendicazioni, e con lui l’A.M.D.H (Association Marocaine pour les Droits de l’Homme), il M.A.L.I (Mouvement Alternatif pour les Libertés Individuelles), erano riusciti a veicolare sia le voci di intellettuali sofisticati, sia della gente del popolo, non producendo quello scollamento tanto caro in Europa tra chi la rivoluzione la pensa e chi la rivoluzione la fa.
I movimenti in piazza nel 2011 chiedevano innanzitutto una democratizzazione della monarchia, una rinuncia di alcuni poteri da parte del re e la lotta alla corruzione. Per rendere possibile questi obiettivi, i movimenti chiedevano che venisse l’eletta un’assemblea costituente per redigere la nuova costituzione, che doveva poi essere votata dal popolo tramite referendum.
La nuova costituzione viene invece annunciata a giugno, quattro mesi dopo la famosa Giornata della Dignità da cui il Movimento 20 febbraio ha preso il nome,dopo che una commissione sparuta e fedelissima al re si era occupata di redigere il testo. Le contestazioni si lasciano dietro centinaia di arresti e feriti così come dei morti.
“Al partito degli ulema mancavano pochi seggi per raggiungere la maggioranza, e hanno perciò proposto quattro ministeri minori ai comunisti, i quali hanno opportunisticamente accettato l’offerta, ottenendo quattro ministeri su trentuno”.
Forse nel caso specifico fu davvero opportunismo, però bollare l’adesione dei deputati comunisti alla coalizione di governo semplicemente a causa di una debolezza caratteriale è riduttivo quando si parla di strategia di conservazione del potere in Marocco.
Scrive Francesco Cavatorta, professore alla facoltà di scienze politiche all’università di Laval, in Canada, che “la cooptazione può essere altrettanto importante che la coercizione, perché permette all’élite dominante di espandere la base della sua legittimità e al contempo di prevenire ulteriori richieste di riforme.”
“Il tutto, unito alla strategia del divide et impera, giocata usando Marxisti (e gauchistes in generale) da un lato e islamisti dall’altro, sfruttando le loro incompatibilità, crea la necessita di avere un terzo partito politico, forte (in questo caso, il re stesso), ha permesso al makhzen e al re di sopravvivere alle proteste, alla democratizzazione e alla Primavera Araba”.
Il reportage prosegue affermando che i marocchini, oggi, non hanno più paura dell’autorità, del poliziotto o dello spione. Forse non ne hanno più paura, ma le forze di sicurezza non godono certo di popolarità.
Secondo una ricerca fatta da Transparency Maroc, per i cittadini marocchini il settore più corrotto della sfera pubblica è proprio quello degli agenti di circolazione che, per gli intervistati, sono corrotti il 97% delle volte, seguiti da moqaddam e chioukhs (corrott0i il 97% delle volte).
Riguardo poi aver paura dello spione – che può diventare un vero e proprio impiego quando le informazioni sono fornite alla polizia in modo sistematico, e vengono quindi pagate – basta citare l’esempio di Hicham Mansouri.
Mansouri è un giornalista d’inchiesta arrestato e condannato a 10 mesi di prigione nel 2015. Venne arrestato con l’accusa di adulterio con una donna sposata. Una dozzina di poliziotti sono entrati nel suo appartamento di Rabat nel marzo 2014, arrestando sia lui che la donna (che era in realtà separata ma non divorziata quindi legalmente ancora legata al vncolo matrimoniale di fedeltà).
Il portiere e alcuni vicini avrebbero chiamato la polizia dicendo che l’inquilino Mansouri stava usando la casa come bordello; l’accusa poi decaduta in tribunale e i vicini hanno ritrattato. Hicham Mansouri, al tempo dell’arresto, stava conducendo un’inchiesta sulla sorveglianza telematica di giornalisti e attivisti di opposizione da parte del regime.
“Nessun Paese del Nord Africa è al riparo dalla minaccia estremista, ma qui è stata finora neutralizzata dalla politica d’integrazione degli islamisti”— si legge nei paragrafi finali.
No, la minaccia estremista è stata neutralizzata dall’enorme, gigantesco e pervasivo apparato di sicurezza che lo Stato marocchino ha stabilito nel corso dei decenni.
Scrive Hanspeter Mattes in un report per il Geneva Center for Democratic Control of Armed Forces (GCDCAF) che l’apparato di sicurezza marocchino “include molteplici organizzazioni di polizia e di paramilitari, spesso con giurisdizioni che si sovrappongono”.
Esiste la polizia nazionale (DSGT – Direction Générale d Sureté Nationale), le Forze Ausiliari (Forces Auxiliaires), la Gendarmeria reale (Gendarmerie Royale). A questi corpi vanno aggiunti quelli dell’esercito e delle Forze Armate reali.
I dati sul numero di perone impiegate negli apparati di sicurezza rimangono fuori dal pubblico dominio, ma si attestano sulle 500mila unità (per una popolazione totale di 33 milioni). Consideriamo che in Italia l’organico delle forze d polizia è di 330mila unità, u una popolazione di 60 milioni, 150mila in Gran Bretagna e Francia.
A tutto ciò vanno sommati i servizi segreti, le cui stime sia sull’organico che sui fondi a disposizione sono assolutamente segrete. Anche qua, l’iper-produzione di dipartimenti e apparati è evidente : alcuni corpi dipendono dal ministero dell’interno, come il Renseignements Généraux marocains, il Service autonome de 136, il renseignement des Forces Auxiliaires Marocaines, la Direction générale de la surveillance du territoire, la Direction Générale des Affaires Intérieures, altri da quello della difesa (la Direction générale des études et de la documentation, il 2ème Bureau, il 5ème Bureau, il Service de Renseignement de la Gendarmerie Royale Marocaine).
Senza contare l’enorme quantità di dati raccolti di lustrascarpe, dai tassisti, dai portieri e dai muqaddam e poi ceduti alle forze di sicurezza : la leggenda parla di un informatore ogni condominio. La leggenda parla anche di registratori nascosti nelle carrozze dei treni, di orecchie elettroniche che ascoltano e registrano le conversazioni dei passeggeri e che sono in diretto contatto con i servizi.
Verità o paranoia? Probabilmente la seconda, ma la dice comunque lunga sulla percezione che la gente ha della pervasività dell’apparato di sicurezza.
Sono d’accordo con Tozy, i tempi sono cambiati per tutti, anche per gli autoritarismi. La macchina della repressione e della censura si deve sofisticare, e in Marocco ci è riuscita benissimo. E’ dovere di tutti, ma soprattutto di coloro che fanno informazione, smascherare queste sofisticazioni, scavare un po’ oltre la superficie per capire – e affermare – che come Al Sisi non rappresenta un baluardo laico all’avanzata islamista, così Mohammed VI non ha integrato gli aspiranti terroristi.
Il Marocco non è un “miracolo”, ma è uno stato autoritario e poliziesco, i cui intellettuali e attivisti sono in esilio all’estero, in cui la protesta sociale è stata depotenziata e assorbita da un mix ponderato di concessioni e repressioni post-2011, dove la cooptazione e la coercizione viaggiano in sinergia e dove il territorio Saharawi è molto più di “una linea rossa”, è una parola che ti costa la libertà.
Ricordiamoci di tutto questo la prossima volta che ci indigneremo per i rifugiati saharawi in Europa o – che Dio non voglia – la prossima volta che un ricercatore venga ucciso per il mestiere che fa.
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