La tivù rimbomba di allarmate discussioni sulla Brexit, ma io sono distratto. Il lobo temporale del mio cervello è rimasto aggrovigliato nel ricordo di un ricamo. Un ricamo armeno intagliato nella pietra.
testo e foto di Giovanni Ferrò
E’ posto all’esterno della chiesa di Goshavank, in un villaggetto smarrito nelle campagne non lontano dalla cittadina di Dilijan. Il monastero è mezzo diroccato, manca un pezzo del tetto e non c’è energia elettrica. E lui sta lì, dimesso, a destra del portone d’ingresso. E’ un khatchkar, una delle migliaia di croci scolpite nel tufo che sono un marchio caratteristico della terra armena, una sorta di carta d’identità di questo cristianesimo antico e marginale.
Quello che ho in mente, però, non è un khatchkar qualunque. E’ chiamato “aserghnagorts”, cioè “ricamato” appunto: fu intagliato dal maestro scalpellino Poghos nel 1291 con motivi così fini e delicati che non si riuscì a definirlo in altro modo se non con un tale ossimoro.
Non sono un esperto di uncinetto o di tombolo, ma la definizione mi pare di una precisione chirurgica: l’albero della vita alla base, la croce al centro, disegni floreali ai lati, e il tutto così aereo, così leggero che ti chiedi come mai quella pietra massiccia del peso di qualche quintale non prenda il volo librandosi in cielo.
Ricordo il gruppetto di contadini male in arnese che chiacchierava fuori dalla chiesa: uno di loro, con l’abito buono della festa, fumava una sigaretta fatta a mano inserita in una sorta di bocchino a forma di pipa, così che la brace stava in verticale, altro piccolo omaggio alle sfide impossibili lanciate alla forza di gravità. E ricordo il parroco, un giovanotto sposato (qui i preti si possono sposare), in talare nera arrivato da poco nel villaggio, che raccontava del paradosso di una terra cristiana fino al midollo, eppure con così pochi battezzati, dati i 70 anni di regime sovietico.
Mentre in tivù si dibatte ancora di Regno Unito e Unione europea, papa Francesco è atterrato a Yerevan per una visita di tre giorni in questo Paese trascurabile (e trascurato), che però è quasi un pezzo d’Europa precipitato ai piedi del Caucaso. Prima nazione ad aver fatto del cristianesimo la propria religione di Stato, l’Armenia è stata per secoli un sogno negato, che produceva esuli, monaci e intellettuali. Poi, tra il 1915 e il 1916, l’enorme tragedia del genocidio, il “Medz Yeghern”, un milione e mezzo di morti per mano del regime ottomano dei Giovani Turchi. Dopo ancora, il sonno comatoso e sofferto del regime sovietico. Infine, nel 1991, l’indipendenza. Ma da quando il sogno si è fatto realtà, ha assunto i contorni di un bizzarro delirio onirico, a metà tra la modesta repubblica post-sovietica – con le sue architetture staliniste e i suoi 40 oligarchi che possiedono il 90 per cento delle ricchezze – e un giardino dell’Eden mediorientale, la patria dell’anima dove gli armeni della diaspora programmano di fare ritorno, almeno una volta nella vita, per baciare la terra e i lontani parenti.
In questo bizzarro sogno divenuto Stato, tutto assume un contorno paradossale, a cominciare dal suo nome: per gli armeni, infatti, l’Armenia si chiama Hayastan, e rimanda subito – anche nel suono – a un’epopea di eroi, di martiri della fede, di un mondo passato che gravitava tra il Mediterraneo e la Piana di Ninive. Quel mondo non esiste più ma resta marchiato a fuoco nel volto antico dei suoi abitanti e respira nelle volute scolpite sulle sue croci di pietra.
Sì, perché – e qui è l’altro paradosso – anche le pietre hanno vita, da queste parti. Traspirano memoria, grazia, tenacia. E raccontano storie.
Come quella del caravanserraglio sul passo di Selim, un tempo snodo-chiave sulla Via della Seta: una massiccia costruzione, bassa e buia, in cui ti raffiguri la sosta di pellegrini esausti e mercanti intirizziti, che trovavano riparo insieme ai loro animali da soma carichi di stoffe e spezie. Oppure come quella del monastero di Khor Virap, su uno sperone di roccia affacciato in faccia all’Ararat, dove immagini San Gregorio Illuminatore imprigionato in un pozzo per 13 lunghi anni prima del suo arrivo a corte, dove infine convertì alla fede cristiana il re Tiridate III.
Con il brusio politico-televisivo in sottofondo, mi si affaccia in mente la fortezza di Amberd, con la chiesetta poco discosta, che piangeva lacrime di pioggia in una giornata fredda e ventosa di metà giugno. Mi sovvengono i monti brulli battuti dall’acqua di stravento dove solo i pastori yazidi e le loro pecore si avventuravano all’aperto. E poi ancora altre chiese, altre cupole, altri chiostri umidi e diroccati che rimontano ai secoli passati: Sevanavank, Akhtala, Noravank. Ogni tempio si assomiglia, e ciascuno è unico a modo suo. “Sai, per noi armeni è quasi impossibile pregare in una chiesa moderna”, mi diceva Piruza Nazaryan, che ti parla del suo Paese come ti raccontasse la sua storia di famiglia e che, quando canta, chiude gli occhi rapita. “Solo nei monasteri antichi abbiamo l’impressione che le pietre siano abitate dal soffio dello Spirito”.
Sono uno scettico per mestiere e non mi risulta facile abbandonarmi al deliquio dei misticismi. Eppure le parole di Piruza suonano tremendamente reali. Non me lo so spiegare, ma sì: le pietre qui raccontano storie, rimandano l’eco di antiche litanie, sembrano animate da un soffio divino. In questo angolo di Caucaso, nonostante la guerra per il Nagorno-Kharabakh, nonostante i quaranta oligarchi, nonostante le ferite ancora aperte del genocidio, batte forte il cuore di una profezia: quella di un mondo redento e riconciliato, magari più povero ma anche più libero, dove una memoria viva del passato aiuti a costruire un futuro più solidale e fraterno. Tutto sommato, una lezione per la vecchia Europa tramortita dallo psicodramma della Brexit.