Un movimento contro la speculazione immobiliare a Belgrado diventa il simbolo di più ampie richieste politiche
Testo di Francesca Rolandi, foto di Ali Türünz, da Belgrado
Già dalla tangenziale che si avvicina al centro di Belgrado i cartelli ricordano al visitatore Belgrade Waterfront, la Dubai dei Balcani, il progetto megalomane portato avanti dal governo serbo e dall’amministrazione cittadina per cambiare completamente volto alla zona della capitale antistante il porto fluviale.
In caso ciò non fosse chiaro, una rappresentazione dell’avveniristico complesso su scala gigante troneggia in un manifesto antestante la stazione degli autobus. Belgrade Waterfront ha un numero verde attivo al quale è possibile rivolgersi per informazioni.
Tuttavia rimane ancora ignoto chi saranno gli acquirenti di appartamenti che costano cifre astronomiche (da 2.500 a 3.000 euro al metro quadrato, a cui vanno aggiunte le imposte) per la quasi totalità dei cittadini serbi.
Il progetto è sin dall’inizio stato circondato da polemiche e dubbi, dei quali si è fatta portatrice in particolare l’iniziativa Ne da(vi)mo Beograd [Non affon(diamo) Belgrado].
Inizialmente ad essere oggetto di critiche è stato il fatto che per la costruzione del complesso sarebbe stata devastato uno dei quartieri più caratteristici del centro storico, quella di Sava Mala, che negli ultimi anni era stata riqualificata dal basso trasformandosi in un’area particolarmente densa di attività culturali.
Il precedente piano urbanistico è stato appositamente cambiato ed è stata fatta passare una legge che permette espropriazioni anche per progetti non di interesse pubblico.
Inoltre, sempre più è emersa la mancanza di trasparenza del governo – sia per la sua volontà di soffocare ogni voce contraria al progetto, sia per il ruolo dei partner degli Emirati Arabi Uniti che avrebbero dovuto investire una cifra molto più alta di quella che è stata effettivamente messa in campo.
E così le ruspe già da alcuni mesi si fanno largo per preparare il terreno nell’area dell’ex porto fluviale retrostante alle stazioni, lasciandosi alle spalle le macerie di bar trendy, ma anche vecchi magazzini, casupole e numerose kafane (osterie).
Molti di questi stabili, pur esistendo da diversi decenni, sono abusivi, il che mette i proprietari in una posizione particolarmente difficile.
La kafana Paun, dietro la stazione, ha festeggiato in modo malinconico, in una grande sbornia collettiva e al suono di musica popolare (narodnjaci) la sua ultima notte di attività prima della demolizione, con proprietari, personale e cantanti incerti di quello che sarà il loro futuro. Un sottobosco che unisce diverse categorie di persone, provenienti dai margini e non della città e della società.
Tuttavia, se come sempre il governo di Aleksandar Vučić è andato avanti senza troppo curarsi degli umori popolari, un evento oscuro, occorso nella notte post-elettorale tra il 24 e il 25 aprile, ha fatto esplodere la protesta.
Una trentina di uomini coperti da passamontagna hanno fatto irruzione negli stabili di via Hercegovačka, retrostante la stazione degli autobus, distruggendo con tanto di ruspe gli stabili.
Le persone che si trovavano sul posto sono state maltrattate e immobilizzate, e quando, una volta liberatesi, hanno chiamato la polizia, questa ha scaricato il barile non recandosi sul posto la notte stessa per fare un sopralluogo.
Questa azione avveniva indisturbata nel centro di una capitale. Alcuni dei proprietari di queste strutture, pur mancanti dei permessi, da tempo inoltravano a diverse istituzioni richieste di risarcimento per lo sgombero.
Inizialmente Vučić, per sottolineare l’estraneità delle autorità politiche, ha affermato che via Hercegovačka non sarebbe stata tra le aree da sgomberare, mentre è poi emerso che sarebbe dovuta essere ripulita entro la fine giugno. Inoltre, ha minimizzato a più riprese l’evento.
Successivamente, il capo della polizia locale, Dragan Kecman, ha dichiarato pubblicamente di essere stato rimosso dal suo incarico per aver compiuto onestamente il suo lavoro, richiedendo fare un sopralluogo la sera dell’aggressione.
Secondo alcuni questa distruzione effettuata da ignoti richiamerebbe quella che Vučić starebbe portando avanti nei confronti della società civile e dei media, additando ogni voce contraria ed esercitando una pressione, a volte esplicita, a volte più sottile, attraverso strumenti poco controllabili quali la pubblicità e i finanziamenti.
L’impunità e la compenetrazione tra stato e forze oscure, invece, sono sembrate a molti riportare le lancette indietro agli anni ’90.
Tuttavia, la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato il decesso, avvenuto circa un mese dopo, di uno dei testimoni della distruzione, un custode che sarebbe stato legato e privato del telefono cellulare e dei documenti dagli aggressori mascherati durante il raid del 24-25 aprile.
Slobodan Tanasković, secondo molti la prima vittima del progetto megalomane Belgrado sull’acqua, si è presentato in ospedale in stato preinfartuale ed è successivamente deceduto per complicazioni agli organi interni.
Secondo alcune testimonianze, tuttavia, sarebbe stato sconvolto dagli eventi accaduti e circolano voci secondo le quali sarebbe stato tenuto in stato di contenzione negli ultimi giorni in ospedale e avrebbe parlato in modo sconnesso.
Mentre da circa 2 anni gli attivisti di Ne da(vi)mo Beograd manifestavano contro l’attuazione del piano senza riuscire a portare in piazza grandi numeri, l’emozione per gli eventi ha fatto scendere in strada, il 25 maggio, una massa di circa 15.000 persone, come non la si vedeva dalle ben più famose manifestazioni del decennio precedente.
Le immagini del raid
Si trattava di una popolazione composita, in molti casi non avvezza alle manifestazioni, politicamente trasversale ma accomunata dall’indignazione verso il primo ministro Aleksandar Vučić.
Molte le generazioni, creativi i cartelli, numerose le papere, simbolo dell’iniziativa Ne da(vi)mo Beograd, con Belgrade Waterfront ridotto a un pretesto per dire no agli abusi e alla corruzione, alla distruzione del suolo e all’arroganza del potere.
E alla battaglia di Sava Mala si sono unite altre lotte, come quella dell’associazione dei rappresentanti di condominio di Niš, che si sono ribellati alle bollette troppo salate che erano arrivate a causa delle manipolazioni dell’agenzia locale e, dopo un’attività di diversi mesi, sono riusciti ad ottenerne una diminuzione.
Che la manifestazione avesse un grande potenziale politico è stato notato da numerosi osservatori, in primis alcuni politici dell’opposizione che hanno cercato di girarla a loro favore.
In Serbia è diffusa la percezione che qualcosa bolla in pentola e si è iniziato a parlare della nascita di una nuova società civile.
Un successo che è stato replicato nella manifestazione dell’11 giugno, che ha visto un numero più consistente – 20.000 partecipanti circa – chiedere le dimissioni di tutti i responsabili cittadini dell’azione in via Hercegovačka e dell’inerzia della polizia.
Alcuni giorni prima Vučić aveva deciso di scaricare le responsabilità sul sindaco di Belgrado Siniša Mali, ma aggiungendo che la sua azione sarebbe stata dettata dalla semplice intenzione di ripulire la zona dalla criminalità lì presente. Ad essere sbagliati sarebbero stati solo i mezzi, secondo il premier serbo, un’affermazione che ha provocato ulteriore indignazione.
Il 25 giugno un’altra manifestazione, in un continuo crescendo di presenze che hanno toccato le 25.000, ha nuovamente attraversato le strade di Belgrado, ripetendo le stesse richieste di dimissioni verso le autorità considerate responsabili. Dietro le quali si trova il grande tessitore, Vučić, convivato di pietra e oggetto ultimo della rabbia di molti di coloro che sono scesi in piazza.
Che ha dimostrato uno spiccato talento politico nel distruggere ogni alternativa al suo potere, ma allo stesso tempo si è lasciato sfuggire il fatto che le proteste contro Belgrade Waterfront, da iniziativa di nicchia guidata da attivisti, abbiano catalizzato la frustrazione ribollente in Serbia. Il che, e ciò potrebbe essere da molti confermato, non è cosa da poco.