Amiamo l’Europa perché detestiamo la guerra

Nei discorsi sull’Ue che circolano in questi giorni,
freschi di Brexit e di navigazione a vista, c’è una protagonista che non viene presa in considerazione: la guerra

di Nicolò Cesa

Si può dire di tutto sull’Europa. E di tutto, in effetti, si è detto: arena di burocrati spietati, di uomini grigi parcheggiati in sedi istituzionali ininfluenti, acquario di pescecani onnivori, capolinea delle conquiste sociali e politiche. Europa brutta, cattiva e per di più inutile, soffocata dagli egoismi nazionali e dalle urgenze della politica interna dei vari stati. Europa dilaniata dagli scandali, dalle lezioncine degli stati del nord che si trasformano in fregature per quelli mediterranei e orientali. Europa impotente, senza una vera e propria capacità di produrre atti di politica estera, schiacciata dai trattati economici con gli Stati Uniti, il turbo della Cina e la schizofrenia della Russia putiniana. Europa cinica, quando ha assunto il volto della cancelliera tedesca nei confronti dei poveri Greci; Europa rinchiusa nel dialogo tra Meli ed Ateniesi e nei banchetti al Pireo tra l’idealismo di Socrate e il cinismo della realpolitik di Trasimaco. Europa che ritorna, sempre, nei discorsi dei ragazzi che sognano un futuro diverso, che non si accontentano; tra i vecchi mezzi avvelenati ai tavolini dei cafè di Zagabria e Belgrado. Europa terra dei diritti e del malcontento, dei populismi dal volto più o meno umano. Europa del Marco Tedesco che ora si chiama Euro, terra di muri che crescono come funghi, nell’umidità e nel buio dell’indifferenza e dell’astensione, sotto la pioggia dell’odio e dell’intolleranza. Ventotene e Berlino, Idomeni e Londra.

Eppure, nei discorsi che circolano in questi giorni, freschi di Brexit e di navigazione a vista, c’è una protagonista che non viene presa in considerazione: la guerra.

Ce la siamo dimenticata. Anzi, non l’abbiamo proprio vista, non l’abbiamo vissuta. Per questo, forse, ci viene naturale prendercela sempre con la democrazia, giocare con l’indifferenza e con il “tanto, che cambia?”, illudendoci che un voto di protesta possa dare una scossa. Ma con l’elettricità non si scherza. E forse varrebbe la pena quanto meno prendere in considerazione un fatto storico e sociale evidente ed incontestabile: da quando esiste l’Europa, intesa come comunità e unione di stati, intere generazioni si sono dimenticate dell’esistenza nel mondo della guerra.

Sia chiaro che per guerra non intendo ad esempio – com’è opinione comune, anche tra i commentatori più acuti – lo smacco della Merkel ai greci o di tutte le manovre economiche e finanziarie spietate di chi ora, in questo momento, ha in mano le redini del Vecchio Continente; certo, non è facile trovare dei vocaboli per certi comportamenti. Ma la guerra è la guerra. E coi termini non si scherza. Non possiamo gonfiare i concetti sperando che essi, gonfiandosi, arrivino ad occupare lo spazio di altri termini, colonizzandone i significati. Se tutto ciò che è ingiusto, sbagliato e spietato è guerra, allora non ha più senso parlare di guerra. Certamente la guerra è, tra le attività umane la più ingiusta, sbagliata e spietata che esista. Ma questo non basta a dire che, quella tra Germania e Grecia fu una guerra. Furono atti politici criminali, certamente. Ma se tutto è guerra, allora la guerra non è più nulla. E allora mi verrebbe da chiedere ad un Serbo, ad un Bosniaco o ad un Croato, ad esempio, se non avesse preferito, caso mai, un’offesa di tipo economico e finanziario al posto dei bombardamenti, degli stupri nei villaggi, delle fucilazioni di massa, dell’incarcerazione dei dissidenti, della tortura, della pesca dei cadaveri gonfi che venivano a galla nei fiumi in primavera. Un attacco di tipo economico e finanziario è, pur sempre, un atto politico. Ed il fatto che non riusciamo a fare ordine tra i labirinti della terminologia e dell’etimologia la dice lunga sulla confusione che regna nel nostro continente.

Eppure la guerra è li, come al solito, dietro l’angolo. Il mondo ne è invaso e l’Europa è letteralmente circondata da conflitti attivi. Ma siamo talmente abituati alla pace da pensare che in fondo, la guerra a noi europei, non ci riguarderà mai. Non ci ha riguardato sino ad ora, quindi perché pensare male?

D’altronde è affare da terzo mondo, da eserciti obsoleti, da “tanto oggi ci sono i droni”; esiste nei videogiochi, in cui poi ad un certo punto spegni la consolle, nei libri, nei racconti dei nonni, che sono comunque racconti di un mondo che non esiste più. Non ci vuole un indovino per capire che la guerra c’è stata, c’è e ci sarà. È una delle costanti storiche che ha riguardato il mondo negli ultimi secoli. Si, anche in Europa. Non una guerra economica e finanziaria, ma una guerra vera e propria. Senza cadere nel catastrofismo, sarebbe sufficiente studiare un minimo di storia, conoscere i fatti degli ultimi 70 anni per capire il capolavoro che è stato compiuto in tale senso grazie alle istituzioni europee, che hanno permesso 70 anni di pace, tra le maggiori potenze. Certamente a fatica e non senza situazioni borderline già elencate.

Di tutto si può dire sull’Europa, e di tutto si è detto, come dicevo. Ma non si dice la cosa più importante: ovvero che se pensavamo che fosse sufficiente – e possibile – sedersi ad un tavolo con i rappresentanti di altri stati per liberare l’uomo dalle storture morali, dalla sua natura anche maligna, allora abbiamo sbagliato. L’Europa non nasce per raddrizzare gli uomini e liberare il mondo dalla guerra. Solo un’idealista cieco o uno stolto (politicamente, s’intende) potrebbe arrivare a tali considerazioni. È un’istituzione abitata da uomini, e come tale è quindi esposta al rischio dell’arrivismo, dell’opportunismo politico e del realismo sfrenato. Ma ad essa dobbiamo certamente riconoscere il merito di aver allontanato dalle nostre vite reali e vissute, il pericolo della guerra, del conflitto armato e della violenza; situazioni vissute da chi ha abitato il continente prima che diventasse un continente più o meno unito, prima che sbagliasse quasi tutto. Quasi. E un “quasi” mai fu più pesante.

Perché lontano dall’Europa politica, forse – ma ci sono buone ragioni storiche per crederlo – c’è quello che c’è sempre stato, ovvero l’egoismo di singoli attori statuari disposti a tutto per prevalere ed emergere. C’è un viaggio che porta al capolinea di Treblinka e Fossoli, di Gross-Rosen e Katyiń. E non si intende alla fermata delle sedi bancarie tedesche, polacche e italiane. Deve essere chiaro, nonostante (quasi) tutto, prima che sia troppo tardi. La linea di ritorno, dicono, è certamente puntuale, ma salta tutte le fermate.

 

L’immagine in apertura del memoriale del campo di sterminio di Treblinka, in Polonia, è una foto tratta da Wikipedia in CC.