Ricordando Abbas Kiarostami, scomparso il 4 luglio, fra le strade senza nome del Kurdistan iraniano
Testo e foto di Annalisa Perteghella
Agosto 2015, Iran nord-occidentale, vicino al confine con l’Iraq. Sono in Kurdistan, territorio che non esiste sulle carte politiche, ma esiste nello spazio umano, si percepisce nel suo essere entità geografica a sé stante.
Quando arrivo in cima alla salita e mi trovo davanti agli occhi questo paesaggio, lo stupore lascia spazio a un solo pensiero: “è come in un film di Kiarostami”.
Strade che si snodano
in mezzo alle colline dorate, che sembrano fatte apposta per essere percorse, non semplicemente per andare, per la stessa ragione del viaggio viaggiare.
Dolci declivi e colline inaridite dal sole, eppure punteggiate di alberi di noci, solitari come solitari bisogna stare per ascoltarne il silenzio, sentire il vento che all’improvviso si alza a dare sollievo a una calda giornata d’agosto.
E’ il vento che ci porterà via, Bad ma ra khahad bord, come recita il titolo di uno dei suoi film più belli — ambientato nel villaggio curdo di Siah Dareh — riprendendo il verso finale di una poesia di Forough Farrokhzad.
Ma non solo film. Kiarostami ha scattato lungo queste strade le fotografie della sua raccolta “strade e senza titolo”: solo paesaggi, solo ciò che l’occhio racchiude, senza luogo, senza data, senza tempo. Il cuore si chiude e al tempo stesso si apre.
Le strade senza titolo di Kiarostami sono immagini che stridono con il caos e l’angoscia che da troppo tempo macchiano questa parte di mondo.
Due giorni fa lo stillicidio di Baghdad, ieri Medina e Jeddah, domani chissà dove. Guardo le immagini di Kiarostami, quelle curve tortuose eppure così dolci, quella linea dell’orizzonte che fa finalmente allargare e riposare lo sguardo. Le parole, a un certo punto, perdono di significato, mancano, vengono meno. Il sottile confine tra il desiderio di scrivere, di raccontare, e la consapevolezza che a nulla servirebbe. Non domandarci la parola.
Dovessi scegliere un’altra immagine che rappresenta il cinema di Kiarostami, sarebbe questa tartaruga: immagine di un tempo lento, un tempo piccolo, un tempo che non è fine ma strumento.
Come il cronopio di Cortazar, che cammina alle undici e un quarto mentre tutti gli altri camminano alle undici e venti.
Una certa idea di tempo che si comprende solo guardando la jeep che si arrampica sulle colline ne Il sapore della ciliegia, o osservando le lunghe giornate di Behzad ne Il vento ci porterà via. Un’opera lirica sulla vita e sulla morte, e a chi chiede “di cosa parla, cosa succede”, è liberatorio rispondere non succede niente, e dunque succede tutto.
Kiarostami ci ha mostrato un’altra faccia dell’Iran, diversa e imprescindibile, lontano dalla dolce Persia delle maioliche turchesi, dei corsi d’acqua e dei giardini rigogliosi, i pairidaeza, da cui l’immagine del paradiso. Non era un regista scomodo, o almeno non lo era secondo i canoni di chi normalmente assegna tali patenti.
Il suo cinema mostra solo di riflesso i temi della repressione e del sopruso, preferendo soffermarsi sulle piccole storie di piccole persone, che diventano inevitabilmente ragionamenti su temi grandissimi come la vita, la morte e tutto ciò che sta nel mezzo.
Eppure, Kiarostami era l’Iran e l’Iran era Kiarostami, tanto che una sprovveduta occidentale che si avventura tra le colline dorate del Kurdistan, trovandosi davanti a quel paesaggio mozzafiato e commovente non riesce a non pensare come prima cosa: “è come in un film di Kiarostami”.