A pochi mesi dal referendum sulla riforma costituzionale, il punto di vista di chi sostiene il NO al referendum.
Di Claudio Belloni e Giovanni Missaglia
La ragione delle ragioni è che cambiare la Costituzione non serve. Nessuno dei grandi problemi del Paese dipende dalla Costituzione. La bassa crescita economica e la spaventosa disoccupazione giovanile dipendono dalle politiche economiche e da fattori internazionali.
La corruzione e la criminalità organizzata dipendono dal bassissimo senso di legalità. La fragilità del territorio dipende da dissennate politiche urbanistiche, dall’incuria, dalla mancata consapevolezza della centralità della questione ambientale. La gestione dei flussi migratori dipende da ragioni internazionali e da buone politiche locali. E così via. La dimensione legislativa e amministrativa di questi ed altri problemi, che pure esiste, non ha nulla a che fare con l’ordinamento costituzionale, ma con la legislazione ordinaria e con la qualità della classe dirigente.
Anche ammesso, ma non concesso, che la riforma costituzionale realizzi uno snellimento del processo legislativo, è noto che in Italia abbiamo fin troppe leggi e che il Parlamento, tutte le volte che ha voluto, ha approvato le leggi in poche settimane.
Per quanto riguarda il metodo
Questa riforma è nata per un’iniziativa legislativa del Governo. Questo non è un bene, anzi. Il Governo, per definizione, è espressione di una maggioranza politica. Le regole costituzionali devono invece valere per tutti e devono, nel caso, essere modificate solo per iniziativa del Parlamento, l’unica sede istituzionale rappresentativa dell’intero popolo sovrano e non della sola maggioranza politica.
Certo, il Parlamento ha approvato la riforma proposta dal governo. Questo, però, è avvenuto coi soli voti della maggioranza e, soprattutto, ricorrendo a forzature procedurali (“canguro”, “tagliola”, ricorso ripetuto al voto di fiducia e sostituzione dei deputati dissenzienti nella Commissione riforme costituzionali) che mal si conciliano con lo spirito costituente e costituzionale della nostra Repubblica. Ricordiamo che, dopo una lunga discussione in aula articolo per articolo, la Costituzione del 1948 venne approvata con 458 voti favorevoli e 62 contrari. Ricordiamo anche che i padri costituenti garantirono un’elevata rappresentatività delle molte e duramente contrapposte posizioni politiche del tempo essendo stati eletti con sistema proporzionale dall’89% degli aventi diritto.
Ora, il referendum non può porre riparo a questa grave ferita allo spirito costituzionale. Da un lato, infatti, il cittadino è posto di fronte a un’alternativa secca: l’accettazione o il rifiuto integrale dell’intera riforma; dall’altro, per la conferma della riforma è sufficiente la maggioranza semplice dei votanti, che potrebbero essere – considerati anche i livelli raggiunti dall’astensione – una minoranza degli aventi diritto.
Questo Parlamento, nato dalle elezioni del 2013, è stato eletto con legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Corte costituzionale (sentenza 1/2014). È semplicemente inconcepibile, perciò, che esso possa considerarsi politicamente legittimato anche soltanto a una piccola revisione costituzionale, figuriamoci a una revisione che è molto più che una revisione (per definizione circoscritta, puntuale e omogenea), perché è una vera e propria riscrittura di ben 47 articoli della Costituzione e, dunque, dell’intera Costituzione. Quindi, anche ammesso, ma non concesso, che serva una integrale riscrittura della Costituzione, essa non può che essere di competenza di un’Assemblea Costituente eletta ovviamente con metodo proporzionale per dare voce a tutte le culture politiche e le sensibilità del Paese.
Per questo, la forte eterogeneità ideologica del fronte del NO, lungi dall’essere un segno di debolezza, costituisce un sintomo estremamente significativo del fatto che questa riforma non è stata fatta tenendo adeguatamente in conto l’esigenza di riscrivere le regole fondamentali per la convivenza di tutti i cittadini della Repubblica.
Come scrivono, nel loro appello dell’aprile 2016, 56 tra i più autorevoli costituzionalisti italiani, «La Costituzione, e così la sua riforma, sono e debbono essere patrimonio comune il più possibile condiviso, non espressione di un indirizzo di governo e risultato del prevalere contingente di alcune forze politiche su altre. La Costituzione non è una legge qualsiasi, che persegue obiettivi politici contingenti, legittimamente voluti dalla maggioranza del momento, ma esprime le basi comuni della convivenza civile e politica».
Per quanto riguarda il merito
Non è vero che la prima parte della Costituzione non viene toccata. È vero solo sul piano formale, non su quello sostanziale. I principi fondamentali e la parte prima sui diritti e sui doveri dei cittadini trovano concreta attuazione nella parte seconda, quella cosiddetta ordinamentale, sull’organizzazione istituzionale della Repubblica. Per esempio, il nuovo Senato non elettivo – ma anche la nuova legge elettorale – modificano sostanzialmente persino l’articolo 1 perché cambiano le forme e i limiti secondo cui si esercita la sovranità popolare: «La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Lo stesso si deve dire dell’innalzamento da cinquantamila a centocinquantamila firme per le leggi di iniziativa popolare e della modifica delle norme dell’articolo 75 sul referendum abrogativo.
Tutto questo incide evidentemente sulle forme e sui limiti dell’esercizio della sovranità. Ma solo il popolo sovrano attraverso un’Assemblea Costituente può modificare le modalità costituzionali di esercizio della sovranità.
La seconda parte della Costituzione – modificata in ben 47 articoli su 89 – presenta un nuovo “ordinamento della Repubblica” in cui assume un ruolo preponderante il potere del governo.
La nuova divisione dei poteri non prevede adeguati contrappesi istituzionali, dunque si allontana dai principi del costituzionalismo che caratterizzano la tradizione liberale e democratica occidentale. Nato nel Settecento per contrastare la concentrazione dei poteri nelle mani del sovrano assoluto, rinnovato nel Novecento per scongiurare il riproporsi di regimi totalitari, il costituzionalismo si identifica con la limitazione del potere. Secondo il padre nobile del costituzionalismo, Montesquieu, «un’esperienza di secoli mostra come chiunque abbia del potere sia portato ad abusarne finché non gli vengano posti dei limiti». E la Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 ammonisce che «La società nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha Costituzione» (Art. 16).
Il problema della “governabilità” poteva essere affrontato con altri strumenti – in altri ordinamenti, per esempio, si è fatto ricorso alla “sfiducia costruttiva”.
Pur non pregiudizialmente contrari a un rafforzamento dell’esecutivo, riteniamo che una riforma in tal senso possa essere fatta solo tenendo conto dei necessari contrappesi. A questo proposito si fa spesso riferimento ai poteri del Presidente degli USA, ma altrettanto spesso si dimentica di segnalare che la Costituzione americana (“vecchia” non di 70 anni ma di due secoli!) prevede come forte contrappeso un Congresso eletto in totale autonomia e in tempi che consentano, a metà mandato, di sostenere o di contrastare l’operato del Presidente in carica.
Una maggiore concentrazione di poteri nelle mani del governo, infine, può risultare una scelta miope e poco lungimirante anche per chi la propone, dato che il nuovo ordinamento costituzionale darà grande potere a qualunque forza politica vinca le elezioni.
Il giudizio sulla riforma costituzionale non può essere disgiunto dalla valutazione della nuova legge elettorale, l’Italicum. È vero che sul piano strettamente e astrattamente formale la legge elettorale non è parte della Costituzione, ma non possiamo far finta che le nuove norme costituzionali stiano in un mondo a parte e che la legge elettorale non contribuisca a determinare gli equilibri istituzionali. Ovviamente i due piani sono strettamente intrecciati. E lo sono nel modo seguente: l’Italicum serve a eleggere la sola Camera dei deputati che, secondo le nuove regole costituzionali, sarà l’unica “camera politica”, la sola camera, cioè, dotata del potere di accordare o revocare la fiducia al Governo.
Ora, questa legge non supera, sul piano politico-sostanziale e probabilmente anche su quello giuridico-formale, i rilievi di incostituzionalità della vecchia legge elettorale, il Porcellum. Anch’essa, infatti, assegna un abnorme premio di maggioranza alla lista vincitrice delle elezioni. La soglia prevista del 40% (che comunque non corrisponde alla maggioranza reale degli elettori) è puramente fittizia: essa può essere raggiunta anche al ballottaggio in modo che, quindi, una forza che al primo turno abbia vinto con qualsiasi percentuale, anche molto bassa, e che si affermi al ballottaggio persino con un numero di voti ancora più basso, si vedrà assegnare il 55% dei seggi.
È una pericolosa lesione della rappresentanza del Parlamento, una pericolosa concentrazione di potere nelle mani di un solo partito, di una minoranza del Paese che si trova artificiosamente ad essere la maggioranza assoluta della Camera. Il valore della governabilità non può sacrificare quello della rappresentatività. Anche perché un Paese non si governa solo col Governo ma, più profondamente, con una rete di istituzioni davvero rappresentative, capaci di dare un’espressione ordinata ai conflitti che fisiologicamente si esprimono in una società complessa e articolata.
Con questa legge elettorale, la Camera dei deputati, la sola camera politica, sarà sempre saldamente governativa, puro luogo di esecuzione della volontà del Governo. Lo conferma il fatto che la nuova legge elettorale mantiene i capilista nominati dai partiti.
Così, il partito di Governo potrà contare non solo su una maggioranza numerica amplissima, ma anche su molti “eletti” che in realtà saranno stati nominati anche e soprattutto per il loro grado di fedeltà al potere esecutivo. Dunque, contro il principio liberale della separazione dei poteri, il Parlamento – formato da una Camera dei deputati con queste caratteristiche e da un Senato privato del legame fiduciario col Governo – non sarà più un’istituzione libera e indipendente dal Governo e in grado di esercitare un efficace controllo sullo stesso. Sarà, piuttosto, il Governo a esercitare un controllo sul Parlamento. Lo conferma l’introduzione dell’istituto del cosiddetto “voto a data certa”, con il quale il Governo può imporre al Parlamento contenuti e tempi di discussione dei provvedimenti che considera prioritari ed essenziali. L’abuso della decretazione d’urgenza, scacciato dalla porta, rientra dalla finestra.
La nuova Camera dei deputati continuerà ad essere composta di 630 membri. Il nuovo Senato, invece, viene ridotto da 315 a 100 membri. Questo implica che quando il Parlamento si riunisce, come si dice, in seduta comune, per esempio per eleggere delicati organi di garanzia come il Presidente della Repubblica, il peso della Camera dei deputati – eletta con un sistema che ne determina il controllo assoluto da parte della maggioranza governativa – sarà nettamente superiore a quello del Senato. In pratica, questo significa che il Governo, che già controlla la Camera dei deputati, potrà tranquillamente scegliersi un “suo” Presidente della Repubblica e i tre giudici della Corte costituzionale di sua competenza, aggravando in questo modo il pericolo della concentrazione dei poteri. La tanto sbandierata riduzione del numero dei politici da “mandare a casa” avrebbe potuto e dovuto essere realizzata dimezzando anche il numero dei deputati, ma mantenendo l’equilibrio istituzionale senza il quale il sistema di pesi e contrappesi di una democrazia costituzionale finisce per saltare.
Anche la “controriforma” del titolo V – pur apprezzabile per alcuni aspetti – con l’abolizione delle Province e l’indebolimento delle Regioni comporta il venir meno di un altro contrappeso istituzionale e contribuisce di fatto ad accentuare la centralizzazione del potere.
Il nuovo Senato conserva rilevanti funzioni legislative nazionali, ma senza essere direttamente legittimato dal popolo. Questo è inaccettabile. Chi legifera per tutto il popolo italiano deve avere un mandato diretto di tutto il popolo italiano. I nuovi senatori, invece, saranno scelti dai Consigli regionali e fra i consiglieri regionali, tra l’altro accentuando, in questo modo, il carattere autoreferenziale del ceto politico. Non solo, ma la nuova Costituzione prevede che il Senato non rappresenti più la Nazione (la rappresentanza nazionale è riservata alla Camera dei deputati), ma le “istituzioni territoriali”. È ancora più incredibile, perciò, che i nuovi senatori abbiano potere di revisione costituzionale.
Come può un senatore eletto, poniamo, dal Consiglio regionale della Lombardia fra i consiglieri stessi, allo scopo dichiarato di rappresentare le istituzioni territoriali, avere il potere di modificare, non lo Statuto della sua Regione, ma la Carta fondamentale della Repubblica italiana? Dovrebbe essere ovvio che, senza l’elezione diretta da parte dell’intero popolo sovrano, nessuna Assemblea è legittimata a esercitare il potere sovrano per eccellenza, il potere costituente.
Il vecchio articolo 70 era composto da nove parole ed era comprensibile a tutti: «La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere». Il nuovo articolo 70 – composto da 6 commi e da centinaia di parole con rimandi interni – prevede una complicata procedura legislativa che, invece che superare i vizi del bicameralismo paritario, rischia di accentuarli, generando conflitti di competenza tra le due Camere. La casistica prevista è impressionante:
a) leggi approvate da entrambe le Camere;
b) leggi approvate dalla sola Camera dei deputati;
c) leggi approvate dalla Camera ma che il Senato può chiedere di esaminare e che può emendare;
d) disegni di legge che il Senato può chiedere alla Camera dei deputati di esaminare.
Queste sono soltanto le quattro situazioni che dovrebbero presentarsi con maggior frequenza. Ma, accanto ad esse, ci sono ulteriori casi e sottocasi, tanto che i costituzionalisti giungono a contare fino a 7 o persino 11 diversi procedimenti di approvazione delle leggi. Non sembra affatto una “semplificazione” del procedimento legislativo.
I nuovi senatori saranno consiglieri regionali a mezzo servizio e senatori a mezzo servizio. In quanto senatori, non percepiranno un’indennità, ma saranno ovviamente spesati per le loro trasferte romane. La tanto decantata riduzione dei costi è davvero poca cosa ed è pagata al prezzo di una pericolosa confusione istituzionale.
Alcuni passaggi della riforma sono poco chiari, tanto che gli stessi estensori del testo rimandano all’interpretazione che ne daranno le leggi attuative. Chi vota SÌ, dunque, in parte approva ciò che non è ancora scritto, sulla fiducia.
I nuovi senatori continueranno a godere delle immunità parlamentari previste dall’articolo 68. È facile immaginare che questo servirà a dare copertura costituzionale anche alle loro attività di consiglieri regionali, con buona pace del controllo di legalità nei confronti della classe politica regionale che, in questi anni, ha dimostrato di averne un gran bisogno.
In sintesi. Diciamo no a una riforma che non serve a risolvere i concreti problemi dell’Italia, ma che, invece, altera in modo grave l’equilibrio costituzionale del nostro ordinamento repubblicano. Stiamo toccando ciò che non fa in nessun modo problema, la Costituzione, e non vediamo i problemi veri. La stessa Costituzione che ha visto l’Italia ricostruirsi dopo la guerra e diventare una grande potenza industriale vede oggi il Paese attraversare una fase di decadenza politica ed economica. La soluzione del problema, crediamo, non è questa riforma; e il problema non è la “vecchia” Costituzione, semmai la sua incompiuta attuazione.