di Sara Manisera, foto di Arianna Pagani
“Quando il mio migliore amico è stato ucciso, ho dovuto scegliere da che parte stare. Ho scelto di indossare un naso rosso e di insegnare ad altri ragazzi come me a stare sui trampoli”. Marco Riccio, ventidue anni, è il vice presidente di Il Tappeto di Iqbal, cooperativa sociale che prende il nome da Iqbal Masih, bambino pakistano che si ribellò alla mafia dei tappeti e che fu ucciso, diventando simbolo della lotta contro lo sfruttamento minorile. La cooperativa no profit opera a Barra, quartiere orientale della periferia di Napoli insegnando ai bambini e ai ragazzi l’arte del circo, del teatro e del parkour.
“Se sei nato in certi territori, non hai molta scelta”, continua Marco. “Queste sono strade che ti portano in una bara di legno o dietro delle sbarre di ferro”.
Quarantamila persone, la percentuale più alta di minori di tutta Napoli e il tasso di dispersione scolastica più elevato di tutta la Campania. Otto ville vesuviane settecentesche in una zona che un tempo era chiamata Miglio d’Oro per la ricchezza storica e paesaggistica. E poi quattrocento container in amianto eredità del terremoto del 1980, uno degli ospedali più grandi di tutta Europa costruito nella zona rossa del Vesuvio e poi la Camorra, con le sue piazze, i suoi morti e le sue stragi. Questa è Barra, ma Barra non è conosciuta come Secondigliano o Scampia.
Barra è un territorio abbandonato e dimenticato, pitturato di grigio e di sangue, in cui i giovani si ritrovano a scegliere tra il lavoro in nero sottopagato o le fila della Camorra.
“Puoi lavorare onestamente, ma in nero e guadagnare settanta euro a settimana oppure scegliere di lavorare come palo per la camorra che ti fa guadagnare cento euro al giorno”, afferma Marco, spiegando l’attrattività della mafia.
La scuola che ospita le attività del Tappeto di Iqbal è un edificio spoglio e cinereo. Nelle vie adiacenti due o tre ragazzi senza casco su un motorino scorrazzano a gran velocità. All’entrata della scuola un gruppetto di studenti più grandi è seduto sui gradini, osservando chi entra e chi esce. “Chi siete voi?”, domanda uno dei più svegli. Dopo le dovute presentazioni, Salvatore spiega perché fa break dance: “Mi tengo occupato e non sto in mezzo alla strada”.
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All’interno della scuola, a piano terra, un androne è condiviso dall’insegnante di break dance e dai ragazzi che insegnano circo. Sono circa un centinaio i minori che partecipano alle attività pomeridiane del Il Tappeto di Iqbal. Prima di avere una sede, Iqbal organizzava le sue attività in mezzo alla strada, anche quando la Camorra gli ha distrutto l’unica sede assegnatagli dal comune di Napoli. Iqbal si autofinanzia attraverso gli spettacoli di teatro scritti da Giovanni Savino, educatore, teatrante e presidente della cooperativa, e portati in scena da otto ragazzi di strada in tutta Italia. Ragazzi abituati a vivere in bianco e nero che, grazie al teatro, scoprono un mondo a colori. L’aspetto più poetico e artistico è che molti dei loro spettacoli sono messi in scena in quartieri popolari altrettanto difficili come per esempio Ponte di Noma a Roma o Quarto Oggiaro a Milano.
“Oggi ci spostiamo in tutta Italia, raccogliamo fondi con i nostri spettacoli e li riportiamo a Napoli per formare altri ragazzi o per pagare loro corsi di formazione. Abbiamo sostituito le armi con il fuoco e il fumo con le palline”, racconta Marco sorridendo.
Nonostante il Tappeto di Iqbal sia stato premiato come miglior progetto di cittadinanza attiva dalla Commissione Europea nel 2013 e abbia ricevuto numerosi premi, gli ostacoli rimangono. Le istituzioni locali, spesso, hanno voltato le spalle e ancora oggi la cooperativa sociale non riceve nessun finanziamento pubblico. Recentemente Save The Children Italia ha aperto uno spazio educativo, conosciuto come Punto Luce, proprio a Barra, coinvolgendo Il Tappeto di Iqbal che quel territorio lo conosce bene.
In un territorio fortemente dominato dalla camorra, in cui lo Stato offre poche possibilità, Il Tappeto di Iqbal rappresenta un laboratorio sociale di creazione di alternative perché propone un modello diverso di resistenza della società civile.