Il sogno infranto di Ahmad

Il racconto del terribile viaggio verso l’Europa
e del successivo rimpatrio forzato prima in Turchia
e poi in Pakistan: un giovane hazara
vittima dell’accordo Ue-Turchia

di Andrea Panico,
tratto da MeltingPot

Sono pronto a morire nella mia terra … ma non qui, non in questo mare.

Ahmad S. è afgano.
Ci siamo conosciuti in marzo, quando ancora alloggiava ad Istanbul. Aspettava l’imbarcazione che l’avrebbe trasportato in Grecia, da cui sperava di passare la frontiera per raggiungere suo fratello emigrato illegalmente in Svezia due anni fa.

Speranze legate al sottile spago di Regolamenti e Direttive Europee disapplicate, di accordi bilaterali che intendono considerare Paesi come la Turchia “sicuri”.

Quando l’ho incontrato nel distretto di Zeytinburnu era ormai già un mese che viveva recluso in una casa di poco più di cinquanta metri quadrati con altri sessanta uomini e donne. Subiva in dignitoso silenzio i maltrattamenti degli smugglers e la fame dell’immigrazione clandestina. Tutto per realizzare quel folle e lucido ultimo sogno: l’Europa.

Gli occorreva il denaro per un giubbotto di salvataggio nel caso in cui il mare avesse giocato a lui e al suo gruppo un brutto scherzo facendogli fare la stessa fine del piccolo Aylan. Con la piena coscienza che, tuttavia, la notizia della sua morte non sarebbe stata trasmessa da alcun telegiornale, occupando al massimo un trafiletto su qualche periodico locale.

Sedici anni. Tratti somatici asiatici marcati, il viso segnato dall’acne e il resto del corpo dalle cicatrici di chi è dovuto crescere in fretta per sopravvivere. [1]

La sua tranquillità ostentata si trasformava, ogni qual volta riprendeva a parlare dopo le lunghe pause in cui i suoi silenzi pesavano come macigni, ora nell’esasperata illusione dell’apertura della frontiera macedone, ora nello smarrimento di leggi e regole impossibili da seguire e comprendere.

“Voglio solo vivere, è così difficile da capire? Sono pronto a morire nella mia terra, sono cresciuto con la paura che potesse succedere. Ma non qui. Non in questo mare. Supererò la Grecia.”

Gli occhi scuri e gli zigomi protuberanti tradivano la sua appartenenza alla fiera etnia Hazara. [2]

Considerati i diretti discendenti della gente di Gengis Khan da alcuni, dei Kushana (gli antichi costruttori dei Buddha giganti) da altri, nei secoli trascorsi rappresentavano il gruppo maggiore nell’Afghanistan.
La loro decimazione, tuttavia, iniziò già al termine del secolo diciannovesimo, con il genocidio perpetrato ad opera dei Pashtun al quale sopravvisse solo il quaranta per cento di loro.

A partire dal maggio del 2000, per sfuggire alla violenza talebana molte famiglie si spostarono in Iran e Pakistan.
Ancora, a seguito della guerra cominciata nel 2001 che vide l’Alleanza del Nord rimuovere i talebani dal potere, i combattenti in fuga dal sud dell’Afghanistan iniziarono a perseguitare nuovamente gli Hazara sciiti prima nel nord del Pakistan, successivamente nel resto del paese.

Ahmad lavora da sempre e non per comprare un iPhone o un nuovo paio di jeans. Si è adoperato, sin da piccolo, per trovare il denaro necessario a sopravvivere al nulla di un’adolescenza mai vissuta, alla brusca interruzione di quell’infanzia fermatasi il giorno in cui suo padre, compiuti i sette anni, lo sollecitò a darsi da fare per procacciarsi il cibo.

Quindi da li a poche settimane il primo impiego: lavorando per un hotel di lusso al centro di Kabul dove lucidava vetri per undici ore al giorno. “Quando tornavo a casa ero nero. Coperto di polvere e sporcizia dalla testa ai piedi. Passavo ore a levar via le macchie, mangiavo quel poco che potevamo permetterci e poi andavo a dormire per riprendere le forze di cui avrei necessitato il giorno successivo.”

Un periodo talmente lontano dallo stereotipo della tipica adolescenza vissuta degli occidentali. A dodici anni non scambiava figurine della Panini sul banco di scuola, né occupava i suoi pomeriggi piovosi di aprile a divertirsi con la Play Station.

Una volta passata, da solo e illegalmente, la frontiera col Pakistan, cominciò a lavorare in negozi e supermarket vivendo però la sua vita nel terrore di essere ucciso ogni giorno che scendeva in strada, in un paese in cui “con meno di 100 dollari compri e decidi della vita o della morte di una o più persone.”

Ahmad raccontava di quando, percorrendo le strade impolverate del centro città di Islamabad durante una normale giornata di settembre, un colpo di arma da fuoco raggiunse il suo amico che lo accompagnava. A lui toccò il compito di riaccoglierne i pezzi e lasciarli avvolti, in un telo di plastica, nella spazzatura insieme agli scarti dei ristoranti del quartiere.

Ne parlava lasciando che il suo sguardo si perdesse nel nulla, oltre gli edifici distrutti della periferia di Istanbul, con la netta impressione di qualcosa che avesse già calciato alle spalle da tempo, ormai con la mente proiettata solo alle coste greche.

“Qualche anno dopo essere arrivati in Pakistan, è cominciata una vera e propria persecuzione contro di noi. I talebani si sono accaniti. Non era solo ucciderci, il loro scopo era umiliarci e farci scomparire. Ho vissuto il passaggio dall’infanzia all’adolescenza nel terrore di quello che succedeva intorno a noi.

I ragazzi sparivano, ci dicevano che i talebani erano uso arrivare in macchina, rapire uno di noi, stuprarlo e finirlo con un colpo di pistola alla tempia. Per evitare infine il riconoscimento, in genere il corpo veniva fatto a pezzi, smembrato e abbandonato in un sacco sul ciglio della strada o in un fosso. Come se si trattasse di una vacca. Ma di uomini, di ragazzi, si parlava. Di noi.”

L’inizio del viaggio: verso l’Europa dei diritti

Ahmad ha lavorato due anni per accantonare una parte della quota, 1.600 dollari, che gli era stata chiesta per raggiungere la Grecia. Il denaro restante, 1.500 dollari, gli è stato inviato dalla madre. Prestato da uno strozzino che dopo appena un mese l’ha chiamata pretendendo la somma con gli interessi.

Il giorno della partenza, con la disperata consapevolezza di chi sa di avere poco denaro nelle tasche e nulla da perdere, ha confezionato un piccolo zaino, il minimo permesso, e ha lasciato tutto dietro di sé senza voltarsi.
Tutto.

La polvere di Quetta, i pochi amici e la piccola stanza in affitto. [3]

Ha consegnato tutto il denaro necessario per il viaggio al primo smuggler [4], che ad ogni passaggio decisivo tratteneva la propria quota passando le restanti al successivo trafficante, e così via fino ad arrivare ad Istanbul. Valicando il confine nord del Pakistan per raggiungere l’Iran, ed entrando in Turchia nella regione di Van. [5]

Scivola tra i ricordi di quelle quaranta ore di cammino tra le montagne, interrotto solo una volta per riposare mezz’ora, con la neve alta un metro a cingere i fianchi e gelare lo stomaco vuoto. “Camminavamo in genere in fila o a coppie di due, quando la neve era molto alta e le madri o i padri erano già impegnati a tenere tra le braccia i loro neonati, il “mercante” ci ordinava di prendere sulle spalle gli altri bambini e di non rallentare la fila. Lui ci seguiva da dietro in sella ad un cavallo e con una verga in mano colpiva chiunque restava dietro di lui o parlava troppo.”

Non c’è negli smugglers coscienza o rimorso. “A differenza di quanto possiate pensare, la maggior parte di loro sono padri di famiglia.”

Esistono luoghi nell’Asia minore in cui il diritto naturale è qualcosa che sembra essere andato talmente degenerandosi che scegliere un mestiere crudele per non lasciar morire di fame la propria famiglia è, a tutti gli effetti, un’attenuante persino a parere di chi in viaggio perde tutto e, fino a qualche ora prima, discuteva con un amico di sogni e terre promesse.

“Durante il viaggio, sulle montagne turche un ragazzo della mia età cercava di sdrammatizzare dicendoci di vederla come un’escursione o una vacanza, rideva e questo non piaceva allo smuggler che più volte gli disse di tacere. Noi lo avevamo avvertito e nonostante tutto ha continuato per oltre quindici minuti a scherzare, sino a quando il mercante non lo ha colpito con un pugno nello stomaco e, nel momento in cui lui si è chinato senza fiato, con un calcio deciso sulla rotula gli ha spezzato la gamba intimandoci di proseguire. Lasciandolo urlante dal dolore a morire solo sulle montagne.” [6]

Istanbul

L’ultimo step che li separava dalla libertà e dall’Europa sarebbe dovuta essere Istanbul, da cui poi tentare di entrare in Grecia con un imbarcazione clandestina per il Mar Egeo, quindi poi la rotta balcanica e le libertà dell’occidente.
Un mese ad aspettare il momento giusto.

Un mese di tentativi, di sveglie alle tre del mattino e di marce notturne lunghe ore per arrivare sul tratto di costa dove li aspettava il furgoncino che li avrebbe condotti ad Izmir.

Un mese a controllare il meteo, ad aspettare notizie sulle zone meno controllate dalla polizia, quindi i ripetuti dietro front dovuti ai controlli all’indomani degli innumerevoli attentati verificatisi ad Ankara ed Istanbul.
Un mese chiedendo il permesso per uscire di casa, inventando di dover chiamare i genitori per incontrarci, allontanandosi chilometri per sfuggire allo sguardo dei complici che dalla strada controllavano ogni movimento sospetto.

Un mese di gabbia, obbedendo ciecamente e senza fare domande al responsabile della gestione del traffico di esserei umani ad Istanbul e agli altri smugglers.

Gli uomini incontrati in Turchia che entravano in casa erano i più terribili, raccontava Ahmad: “In qualche modo gli afgani capivano la nostra situazione, loro erano consapevoli, crudeli, ma almeno parlavano la nostra lingua e avevamo modo di non essere picchiati seguendo quello che loro ci ordinavano.

Ad Istanbul la maggior parte degli smugglers parlavano solo turco e si rifiutavano di provare a comprendere il nostro inglese. Ci intimavano cosa fare e, quando noi non riuscivamo a capire i loro ordini interpretando il linguaggio del corpo, alle urla seguivano le botte e di frequente coltellate sulle gambe o sulle braccia.

I bambini piccoli che piangevano troppo erano un problema che i genitori dovevano risolvere nell’immediato. Quando la madre non riusciva a calmare le urla del piccolo, veniva picchiato prima il padre quindi lei stessa. Se il piccolo continuava gli veniva somministrato del calmante o delle pillole di sonnifero.”

Ma ciò che distruggeva i nervi era la totale incertezza dovuta dal non riuscire più a distinguere il buono dal cattivo, colui di cui fidarsi da colui da cui stare lontano.

Nell’appartamento il comportamento degli smuggglers, con coloro che non obbedivano o creavano problemi, offuscava la capacità di discernere l’orrore dell’ingiusto dal “crudele ma necessario e quindi sopportabile”.
I compagni di viaggio erano i nuovi fratelli, ma il terrore dei furti impediva il sonno. I pianti durante la notte rappresentavano il rischio che un vicino potesse chiamare la polizia, chi restava indietro durante le marce notturne verso la spiaggia era la minaccia di essere scoperti dalle forze di polizia.

La partenza verso le coste greche. La detenzione e la deportazione

La sera del 23 di marzo, a Ahmad e altri sessanta suoi compagni, dopo aver raggiunto una stazione di pullman nella periferia di Istanbul, sono stati consegnati nelle mani i biglietti per raggiungere Izmir.

Da lì quella che doveva essere l’ultima tappa del lungo viaggio: su una imbarcazione semirigida diretta in Grecia, percorrendo una trentina di km con un vento che in genere raggiunge i 22 nodi e in un mare a cui l’Europa ha già sacrificato centinaia di persone. [7]

Sfuggiti al controllo della guardia costiera turca e sbarcati a Chios, Ahmad è stato identificato e costretto ad alloggiare nel “Centro di Registrazione e Detenzione” Vial di Chios.

In applicazione dell’accordo stretto tra l’Unione Europea e la Turchia, che prevede il riaccompagnamento coatto per coloro che giunti dopo il 20 di marzo non hanno fatto domanda di asilo o la cui domanda è stata ritenuta illegittima, il 4 aprile 66 persone [8] sono state costrette a ritornare in Turchia.

Nonostante le autorità greche e Frontex continuino ad asserire il contrario, quanto riferito da Ahmad è perfettamente in linea con quanto dichiarato dai volontari indipendenti e gli attivisti che operano sull’isola: “Tutti noi avevamo intenzione di richiedere asilo. Le autorità che gestivano il centro e gli operatori dell’UNHCR e di Praxis, tuttavia, non solo non ci hanno informato sulla possibilità di avviare la procedura d’asilo, ma, alcuni di loro, dopo che abbiamo sollevato la questione ci hanno persino fuorviato! Un operatrice di Praxis mi ha detto di aspettare, consigliandomi di non presentare subito la domanda per ottenere la protezione internazionale, ma di attendere ancora qualche giorno.”

A mezzogiorno del 3 aprile, lui e altre 65 persone sono stati allontanati dal gruppo e rinchiusi in una stanza. Di sera, ammanettati e senza aver avuto la possibilità di prendere i propri effetti personali, sono stati trasportati a Tabakika (una piccola cittadina di Chios) dove hanno trascorso la notte dormendo sul pavimento.

All’alba del giorno successivo, la polizia greca ha obbligato Ahmad e gli altri migranti a imbarcarsi sui traghetti diretti in Turchia, picchiandoli lungo tutto il tragitto e senza fornire loro alcuna informazione sulla destinazione del loro viaggio.
Sbarcati in Turchia sono stati trattenuti in un campo, coperto da teli blu affinché la stampa e le NGO non potessero vedere e documentare quanto avveniva all’interno, quindi divisi e trasferiti nel centro di espulsione di Edirne e di Kırklareli.

In quest’ultimo, Ahmad racconta che prima di entrare gli agenti li hanno obbligati a consegnare i cellulari e il poco denaro che avevano con sé. Da lì in poi è stata solo una rocambolesca caduta verso i più duri gironi dell’inferno dantesco.

Le scarse condizioni igieniche e l’assenza di cibo hanno fatto ammalare, nel brevissimo periodo, molti di loro che sono rimasti per tutto il periodo di prigionia senza assistenza medica, costantemente picchiati e senza la possibilità di poter interloquire con un avvocato.
Ad esclusione di una visita condotta tra il 2 e il 4 maggio di quest’anno da tre membri del parlamento europeo e un’altra del 20 aprile dell’UNHCR, a nessuna NGO è stato concesso di entrare nei centri per verificare eventuali violazioni dei diritti umani.

Una sola chiamata concessa per avvertire i familiari dell’imminente rimpatrio e poi il viaggio di ritorno, in aereo, verso il Pakistan con l’anima in pezzi. I soldi spesi e il debito con lo strozzino ancora da saldare, l’implosione violenta del sogno di vivere da uomo e le lacrime di chi non ce l’ha fatta.

L’anima al diavolo ed i sogni all’Europa

Ci risentiamo dopo oltre un mese, è in Pakistan.
Ha tagli sulle braccia, che riconosco e ho già visto tra gli adolescenti ad Idomeni, e il viso invecchiato di anni.
Continuo a fissare le sue foto e sembra abbia svenduto la sua anima al diavolo per nulla. Chilometri e sudore per raggiungere una terra che ha già da tempo sacrificato i diritti della persona e le promesse di uguaglianza, sanciti nelle sue carte, al capitalismo e ai più biechi e meschini interessi nazionalistici.

L’Occidente, che sulle tavole universitarie è uso sezionare il diritto e gli abusi di quei paesi in cui è uso intervenire militarmente per giustificare l’esportazione della democrazia, ancora una volta lascia che le polveriere continuino a bruciare e intere popolazioni a scomparire, respingendole alle porte di casa.

Ahmad è solo un sedicenne afgano. Un sognatore che sull’invisibile costruiva i suoi fragili castelli venuti giù.

È, sarà stato; senza troppa ipocrisia il futuro anteriore è d’obbligo. Ogni volta che ci sentiamo mi scrive come dovesse essere l’ultima.
Come un moderno Enea, abbandonando la sua casa distrutta dalle fiamme della guerra, fuggito verso ovest in cerca di una terra da cui ricominciare è caduto sotto i colpi di intese politiche ed accordi. Lasciato sprofondare nel nulla di una fine già scritta.

In fondo, a volte non importa con quanto coraggio sia forgiato il tuo cuore se in dirittura d’arrivo colui che era il tuo “motivatore” ti tende uno sgambetto facendoti rovinosamente cadere per terra.

Ahmad, dopo la deportazione che lo ha condotto in Pakistan, non è tuttavia rimasto solo. I rapporti che ha intrecciato durante i suoi viaggi continuano a mantenersi vivi.

Un team legale sta seguendo da vicino le sue vicende. In costante contatto con lui e l’ambasciata, due avvocati stanno tentando il ricongiungimento familiare con suo fratello in Svezia.
Affinché, ancora una volta, uomini e donne liberi riescano a trovare soluzioni pratiche a quello che l’Europa continua a disfare.

Note

[1] “PROFILING OF AFGHAN ARRIVALS ON GREEK ISLANDS” è il rapporto condotto dall’UNHCR nel marzo del 2016 su un campione di 652 afgani che alloggiavano in quel mese in Chios, Lesvos e Samos (link). Dal combinato di due dati in particolare emerge la tragicità della debolezza della categoria dei minori: il 44% del campione oggetto di indagine è infatti under 18, a fronte di un flusso migratorio in cui il 25% ha viaggiato senza essere accompagnato da nessun membro della propria famiglia. Il 10% degli intervistati inoltre è stato separato da un membro della propria famiglia durante il viaggio al confine Iran/Turchia e il 4% di loro al momento dell’intervista non lo aveva ancora ritrovato.

[2] “PROFILING OF AFGHAN ARRIVALS ON GREEK ISLANDS” evidenziava come gli Hazara fossero l’etnia maggiormente presente al momento in Chios, Lesvos e Samos con il 38% di presenze, seguiti dai Tajik con il 37%, i Pashtun con l’11%, i Parsi con il 4%, gli Uzbek con il 2% e i Sadat con il 3%, altre minoranze al 6%.

[3] “PROFILING OF AFGHAN ARRIVALS ON GREEK ISLANDS”, evidenzia che il 16% del campione di persone intervistate aveva vissuto per un periodo superiore ai sei mesi in un altro paese prima di intraprendere il suo viaggio verso la Grecia.

[4] “PROFILING OF AFGHAN ARRIVALS ON GREEK ISLANDS”, l’81% degli intervistati aveva ricevuto informazioni in merito alle rotte e alle possibilità di ricevere asilo in Europa esclusivamente dagli smugglers.

[5] “PROFILING OF AFGHAN ARRIVALS ON GREEK ISLANDS”, in merito alle rotte utilizzate seguite dagli intervistati, il 37% di loro ha viaggiato dall’Afghanistan al Pakistan, quindi Iran e Turchia, o quella più diretta Afganistan – Iran – Turchia (31%). Per quel che riguarda gli afgani che già prima di iniziare il viaggio vivevano fuori dal loro paese di origine, il 27% ha cominciato il proprio viaggio in Iran, proseguendo per la Turchia e quindi per la Grecia; solo l’1% ha seguito la rotta di Ahmad partendo dal Pakistan dove viveva e, passando dall’Iran, si è diretto verso la Turchia.

[6] “PROFILING OF AFGHAN ARRIVALS ON GREEK ISLANDS”, oltre il 52% degli intervistati aveva subito incidenti durante il viaggio verso l’Europa (il 33% violenza fisica e il 25% furti, il 12% era su gommoni e barche che sono naufragate). Il 36% di questi incidenti si sono verificati in Turchia, il 35% in Iran.

[7] Nel 2016, al 6 di giugno, secondo i dati forniti dalla Guardia Costiera greca, sono stati recuperati 148 corpi in mare. 46 migranti risultano tutt’ora dispersi

[8] A cui si aggiungono 136 da Lesbo per un totale di 202 persone.