di Maria Tavernini
La morte del ventiduenne Burhan Muzaffar Wani, comandante del gruppo separatista kashmiro Hizbul Mujahiddeen, ucciso dall’esercito indiano lo scorso 8 luglio in uno scontro a fuoco, e la brutale repressione delle proteste che la sua morte ha scatenato in tutto il Kashmir indiano, hanno gettato la valle in un caos che molti analisti temono possa significare la riapertura della mai chiusa questione kashimira e, quindi, un’ulteriore bagno di sangue.
Sono per ora 36 le vittime, quasi tutte civili, oltre 1500 i feriti, ma il bilancio continua a salire mentre per le strade gli scontri tra polizia e ribelli si intensificano col passare dei giorni.
Sabato scorso, migliaia di persone hanno sfidato il coprifuoco dichiarato in gran parte dello stato per partecipare in massa alle commemorazioni per la morte di Burhan, guerrigliero capo del più grande gruppo ribelle kashmiro.
Ventimila persone, a detta dei manifestanti, sulle quali si è abbattuta la repressione della polizia che ha aperto il fuoco su quanti, stretti attorno al corpo senza vita di Wani, protestavano con slogan e lanci di pietre.
Burhan, appena ventenne, negli ultimi anni era diventato il nuovo volto della resistenza kashmira.
Figlio di una famiglia benestante, Wani ha contribuito a fomentare e reclutare attraverso i social network la nuova generazione di combattenti, nati e cresciuti all’ombra della repressione indiana. Si racconta che abbia iniziato la sua militanza quando, dopo un episodio di violenza subìta insieme al fratello per mano delle forze dell’ordine, a soli 15 anni ha lasciato la vita agiata in famiglia per andare a vivere sulle montagne e organizzare la guerriglia di liberazione del Kashmir. Oggi, è un martire.
La rabbia per quello che la maggioranza dei kashmiri vede come l’ennesima esecuzione extragiudiziale – l’omicidio di stato di un eroe della resistenza contro l’oppressione indiana – è esplosa in proteste e sassaiole. Le manifestazioni a Tral (sua città di origine, dove si è svolto il funerale), nella capitale estiva Srinagar e in tutto il sud del territorio conteso – che da anni costituisce un nodo irrisolto tra India e Pakistan-, hanno innescato una spirale di violenza come non si vedeva da anni in Kashmir.
La polizia ha risposto caricando i manifestanti armati di sole pietre con proiettili di gomma, pellet e lacrimogeni, spesso lanciati ad altezza uomo, mentre a detta delle autorità indiane una dozzina di stazioni di polizia, oltre a diversi campi paramilitari e check-post sono stati attaccati. Automobili e copertoni sono stati dati alle fiamme dai manifestanti per le strade di Srinagar e nel sud dello stato, dove la guerriglia sembra essere tornata ai livelli di tensione delle estati calde del Kashmir, quelle del 2008 e del 2010, che hanno lasciato centinaia di morti per le strade.
E intanto, a Srinagar reporter sul posto raccontano di ospedali traboccanti di feriti che rischiano di perdere la vista per il lancio di proiettili all’altezza del volto. Insha, una ragazzina di 14 anni colpita al viso da un proiettile cosiddetto “non letale”, così come altri 100 feriti, rischia di non poter mai più vedere. Le lesioni sono causate da fucili ad aria compressa che sparano pellet pieni di centinaia di pallini di piombo, che le forze governative usano dal 2010 per sedare le manifestazioni in Kashmir che, con mezzo milione di soldati, è la zona più militarizzata al mondo.
Mentre Human Rights Watch ha condannato l’uso della forza e l’impunità di cui gode la polizia indiana in Kashmir, pochi giorni fa Amnesty International ha pubblicato un rapporto nel quale accusa l’India di aver deliberatamente ignorato le violazioni dei diritti umani in nome della sicurezza nazionale in Jammu e Kashmir tra gli anni 90 e il 2012, chiedendo inoltre che sia assicurato l’accesso alle cure mediche per tutti i feriti negli scontri, mentre sangue e medicine iniziano a scarseggiare negli ospedali.
Mirwaiz Umar Farooq, leader dei separatisti Hurriyat, ha dichiarato ad Al Jazeera che l’India ha ripetutamente dimostrato di ignorare le istanze separatiste del Kashmir indiano.
Secondo Farooq, il governo è andato progressivamente restringendo lo spazio di azione politico in favore di una repressione a tutto tondo che ha spinto la popolazione a dare sfogo alla propria rabbia in maniera violenta. E la rabbia, così come la violenza, riesplode ciclicamente nella valle del Kashmir.
Le richieste di indipendenza e autodeterminazione avanzate dalla maggioranza musulmana della popolazione e il risentimento verso quella mancata promessa di consultazione popolare – e quindi di quella che è vissuta come un’“occupazione” indiana -, sono uno strascico della dolorosa partizione tra India e Pakistan nel 1947 e delle rispettive rivendicazioni mai risolte sulla regione. E la morte di Burhan è già diventata il simbolo di una nuova generazione di ribelli che sfidano l’oppressione di Delhi. In molti credono che il suo martirio non farà che gettare benzina sul fuoco dell’intifada kashmira.