Sono frocio, sieropositivo, antifascista

La voce di chi ha subito attacchi omofobi sui social network e per le strade, la volontà pervicace di continuare a resistere

di Paolo Gorgoni

Quando parliamo di omofobia, di sierofobia, di transfobia, parliamo di un universo malefico e ampio, la cui esistenza trascende l’appartenenza a una o all’altra minoranza. Nasce da radicate strutture di pensiero che ci fanno odiare chi è diverso da noi. Si chiamano fobie, forse perché non si possono classificare come frutto del raziocinio, ma sono a tutti gli effetti forme di odio, più o meno profonde, spesso risposte all’intima frustrazione che proviamo per la nostra incapacità di essere liberi come vorremmo.

Nella mia vita, ho dovuto superare molte di queste “fobie” e per una ragione molto semplice: sono frocio, sieropositivo e antifascista. Per fortuna sono almeno bianco, maschio e cisgender, altrimenti chissà che disastro sarebbe la mia sopravvivenza.

Dopo essere stato a lungo marginalmente in contatto con la realtà LGBTQ di Bologna, città in cui ho vissuto per nove anni, ho scoperto di avere l’HIV. Già essere gay, fare coming out a 14 anni, a Brindisi, non era stato esattamente un passaggio indolore. Tuttavia il cambiamento identitario richiesto dalla mia nuova condizione di salute era ancora più radicale. Come dico sempre: passavo dallo strato esterno della matrioska a quello successivo.
Prima potevo essere discriminato da chi non si sentiva lesbica, gay, bisessuale, asessuale, trans, queer o intersex, dopo la diagnosi, anche la comunità LGBTQ avrebbe avuto i suoi buoni motivi (cioè paura, ignoranza e superficialità) per lasciarmi morire in un angolo da solo. E
ppure non è stato proprio così, infatti se essere gay non era stato sufficiente per convincermi a guardare il mondo degli altri come qualcosa di sempre vicino e degno di attenzione e rispetto, prendere l’HIV a 23 anni è stata un’occasione per dirmi “Ok, non ci piace questo mondo? Allora bisognerà fare qualcosa per cambiarlo. E lo faremo col coraggio e con la delicatezza”.

Lo faremo,sì, perché il mondo non si cambia da soli, questo è poco ma sicuro.

In Italia sono entrato in Plus – Rete LGBT di persone sieropositive, e ho iniziato ad occuparmi di counselling alla pari per persone che vivono con HIV. Piano piano ho iniziato a muovere i passi nel resto d’Europa, prima attraverso la formazione con European AIDS Treatment Group -di cui ora faccio parte- e poi attraverso la collaborazione col GAT di Lisbona, di cui pure faccio parte. Per finire, ho scritto per gay.it, trattando soprattutto temi legati alla sieropositività all’interno della comunità LGBTQ(+) italiana.
Ora vivo a Lisbona e qualche settimana fa, iscrittomi per caso ad un gruppo di Facebook che si chiama “italiani che vivono a Lisbona (quelli cattivi)”, ho iniziato a leggere dei post che non mi piacevano molto. Niente di raccapricciante, ma quel poco di omofobia/misoginia/fascismo malcelati che bastano a farmi fumare i testicoli.

Leggo qualcosa come “il Portogallo vincerebbe gli Europei se FROCIaldo smettesse di andare ai gay pride”. E sotto una valanga di battutine da veterofascistello.

Segnalo anonimamente il post a Facebook, ma scrivo anche sulla bacheca del gruppo: “ho segnalato il post perché è omofobo, evitiamo di scrivere certe cose su un gruppo?”.
Vengo immediatamente eliminato dal gruppo e penso che è certamente una fortuna non avere a che fare con una simile mandria di imbecilli.
screen4
Il problema è che la posta privata mi si intasa di insulti. Anche lì, faccio screenshot, ma nemmeno rispondo e continuo a lavorare.
Finché la sera non mi chiamano i miei amici, pure loro membri per sbaglio del gruppo, dicendomi che la bacheca del gruppo è invasa di collage realizzati con mie foto del Pride messe accanto a gente impiccata, e con sotto decine di commenti pieni di odio, minacce e intimidazioni che, secondo quei furboni, non avrei mai potuto leggere. Naturalmente questa cosa assume dimensioni diverse: non amo prendere insulti e stare zitto, ma nemmeno perdere il mio tempo.

Però immagini e parole tanto pesanti, con di minacce di morte e tortura, turbano persino me, così decido che andrò a fare una denuncia in polizia.
Naturalmente si allude pesantemente al mio orientamento sessuale, ma anche al fatto che ho l’HIV (il che vuol dire che sono andati a cercare informazioni su di me).

Un profilo Facebook probabilmente falso inventa persino una storia che non esiste: scrive all’ufficio di European AIDS Treatment Group (quindi di informazioni su di me ne hanno cercate un bel po’) per “denunciare” il fatto che io avrei organizzato una frode usando il nome di EATG per un falso fundraising per un progetto in Africa. Sempre furboni, visto che a smentirli ci sono voluti esattamente 20 secondi.
pride lisboa 2016
Tuttavia, questa voglia di perseguitarmi, questa smaniosa ricerca di informazioni su di me, vogliono dire una cosa sola: la prima volta che questi esseri senza volto mi beccano per strada e sono in cinque, nessuno vieta loro di accerchiarmi e uccidermi.

È la dinamica classica della vittima che resta in silenzio. Stavolta hanno scelto la vittima sbagliata, perché io in silenzio non ci sto. Ci ho sempre messo la faccia, la penna, la lingua e il coraggio, quindi continuerò. Alcuni lo chiamano esibizionismo, forse hanno pure ragione. Io la chiamo responsabilità sociale. Io lo chiamo alzare la voce con tutti gli strumenti che possiedo, per dare voce anche a chi ne ha meno.

Io compio 30 anni fra due giorni, non sono più un bambino. E a voi che leggete piacerebbe che un omofobo aggredisse un vostro figlio,nipote, amico, fratello di…non so…14 anni? Credete che col silenzio lo proteggeremmo? Io credo che questi crimini vadano denunciati, puniti ed evitati. Poiché l’impunità alimenta il senso di onnipotenza di questi individui violenti e repressi. Fa loro credere di essere nel giusto, o quanto meno di essere dei geni del male. Perché a colpire dove duole bisogna proprio essere dei geni, sì.
Sarebbe molto comodo lasciare questi leoni da tastiera nel loro brodo e fare la mia vita, tanto hanno più paura loro di me che io di loro, ma il punto è un altro: non possiamo accettare che qualcuno, anche solo online, spenda parole di odio basate sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere di qualcuno e che poi tenti in tutti i modi di diffamarlo e intimidirlo fino al punto di arrivare a minacce esplicite di morte e tortura. Questa è già violenza, non abbiamo bisogno del passo successivo per chiamare questo pasticcio col nome che merita: crimine.

Ho fatto una denuncia in polizia: la reazione delle forze dell’ordine locali è stata tiepida e rassegnata. Non si apre un’indagine per “così poco”. Esattamente quello che mi dissero anche nel 2009, anno in cui, sempre a Lisbona, io e il mio compagno di allora fummo presi a sprangate solo perché camminavamo abbracciati.

All’epoca, non ebbi la forza di sbattere i pugni sul tavolo e costringere il poliziotto a scrivere “omofobia”nel verbale. È la dinamica della vittima. Subisci, eppure ti vergogni, ti senti sbagliato, ti suggeriscono che in fondo è un po’ colpa tua, perchè “hai provocato”. Continuiamo a insegnare alle donne ad accettare insulti senza fiatare, a dir loro di non mettere la minigonna, altrimenti se le stuprano in fondo è colpa anche loro. Continuiamo a dire agli attivisti che le minacce diventano più pericolose se le denunci. Io credo che siano più pericolose se restano nascoste, se le “laviamo in famiglia”, insieme ai panni sporchi.

Se io taccio oggi, forse si dimenticano di me e sto più tranquillo. Però domani tormenteranno qualcun altro, ed io sarò stato un loro complice, perché non avrò alzato la voce quando era necessario.

Mi piacerebbe intraprendere un’azione legale e non lasciar cadere insulti e minacce nel vuoto.
Troppa omofobia nel nostro Paese e in altri, viene celata dal nostro silenzio, ed è annegando in questo silenzio che tanti, troppi adolescenti sono vittime di bullismo, soffrono e a volte si tolgono la vita. La nostra, quella di noi adulti, è una precisa responsabilità nei confronti del futuro, a cui io mi rifiuto di sottrarmi.