Italia. Alla povertà pensiamo domani

Il nuovo rapporto Istat sulla povertà rivela un quadro sconfortante, cui il Governo risponde con misure troppo modeste e risorse insufficienti

Di Clara Capelli

Ogni anno il rapporto Istat sulla povertà in Italia ricorda ai media che una parte non trascurabile della popolazione si trova al di sotto della soglia minima di sussistenza. L’edizione 2016, pubblicata il 14 luglio, rivela un dato sconfortante: più di un milione e mezzo di famiglie, per un totale di oltre quattro milioni e mezzo di individui, in condizione di povertà assoluta nel 2015.

Come osserva lo stesso rapporto, si tratta del dato più alto dal 2005, espressione di un fenomeno in crescita da anni. Già nel 2010 Poveri, noi di Marco Revelli, docente presso l’Università del Piemonte Orientale, riprendeva i dati Istat per denunciare il progressivo impoverimento dell’Italia, con un milione 126mila famiglie al di sotto della soglia della povertà assoluta e una diffusa vulnerabilità sociale. Le conseguenze di tale impoverimento e dell’emarginazione e frustrazione che ne conseguono sono sotto gli occhi di tutti, riportate con dolorosa regolarità dalla cronaca e dalle analisi di più ampio respiro.

I dati più interessanti presentati dall’Istat si trovano ben sintetizzati nel riassunto in prima pagina.

L’aumento della povertà assoluta – ossia di coloro che non riescono a coprire le spese minime per la sussistenza (soglia diversa dal cosiddetto “dollaro al giorno” delle analisi internazionali, essendo basata su criteri definiti domesticamente) – riguarda in particolare le famiglie con due figli (da 5,9 a 8,6%), con una significativa incidenza fra le famiglie di stranieri, tendenzialmente più numerose (da 23,4% a 28,3%). Le famiglie in condizione di povertà assoluta sono in crescita sia al Sud (da 8,6% al 9,1%) sia al Nord (da 4,2% a 5%), soprattutto nelle aree urbane (da 5,3% a 7,2%). Infine, a essere più colpite da questa erosione delle condizioni di vita sono le famiglie con una sola persona di riferimento occupata, in particolare se operaio (da 9,7% a 11,7%).

Anche alla luce di una rassegna sommaria, questo quadro di esclusione mostra con una certa chiarezza come le famiglie e gli individui più vulnerabili siano i perdenti delle dinamiche economiche degli ultimi decenni, dallo sgretolamento del tessuto produttivo italiano a un sistema di welfare e di ridistribuzione che ha abdicato al suo ruolo di garante della giustizia sociale e della dignità. Scelte politiche prima ancora che economiche che non hanno saputo fare fronte in modo adeguato alle sfide di questo mondo sempre più globalizzato, finanziarizzato e concentrato sui soli servizi ad alto valore aggiunto, dimentico delle condizioni di chi in questi settori non trova posto.

L’urgenza del fenomeno non è comunque più trascurabile, stimolando negli ultimi anni un dibattito sulle possibili misure di risposta da mettere in atto.

È stato in particolare il Movimento Cinque Stelle a insistere sulla questione, facendo del cosiddetto “reddito di cittadinanza” una delle sue principali battaglie politiche, rispetto alla quale numerose sono state per altro le polemiche riguardanti la copertura finanziaria e il rischio di incoraggiare “comportamenti parassitari” a danno della produttività del Paese.

Dall’altra parte, ritenendo le disposizioni previste largamente insufficienti, il Movimento Cinque Stelle si è astenuto con altri esponenti dell’opposizione dalla votazione che alla Camera dei Deputati han sancito l’approvazione del disegno di legge sul contrasto alla povertà, votazione che han avuto luogo lo stesso giorno della pubblicazione del rapporto Istat.

 

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Il provvedimento, presentato dal Partito Democratico, prevede l’introduzione di un “reddito di inclusione sociale”, ossia – citando il testo del ddl – “un’unica misura di nazionale di contrasto alla povertà, consistente in un sostegno economico condizionato all’adesione a un progetto personalizzato di attrazione e inclusione sociale e lavorativa volto all’affrancamento dalla condizione di povertà, inclusivo di una componente di servizi alla persona […]”.

L’idea, semplificando, è quella di corrispondere una somma di denaro che permetta all’individuo o alla famiglia – di nazionalità italiana o straniera ma con residenza in Italia da alcuni anni – di ottenere le risorse necessarie – o integrare quelle già a disposizione – per poter raggiungere la soglia della sussistenza. Per chi è in età lavorativa, sarà richiesto di inserirsi in un percorso di formazione o riqualificazione che renda possibile l’ingresso o il reintegro nel mondo del lavoro. I dettagli verranno definiti dal Ministero del Lavoro se il ddl sarà approvato anche in Senato e non è al momento possibile scendere più nel dettaglio nell’analisi.

Le critiche mosse dal Movimento Cinque Stelle e da Sinistra Italiana – che invece ha votato contro l’approvazione del ddl – considerano il reddito di inclusione sociale (REIS) una brutta copia del reddito di cittadinanza, simile alla social card, introdotta nel 2012, che si limitava all’elargizione di modesti contributi economici per sostenere i consumi delle fasce più vulnerabili della popolazione. Una misura pertanto insufficiente a fare fronte ai reali problemi di queste famiglie e di questi individui e accompagnarli in un percorso di effettiva re-inclusione nella società.

È bene precisare a questo punto quanto confuso sia spesso il dibattito su reddito minimo garantito e reddito di base o di cittadinanza.

Il primo, di cui il REIS rappresenta un esempio, prevede che a cittadini o residenti (a seconda delle disposizioni di legge) al di sotto di una determinata soglia considerata “minima” per una vita dignitosa venga assicurato un reddito che permetta loro di raggiungere tale soglia. Il secondo implica che tutti i cittadini o residenti – indipendentemente dal livello di reddito e dal patrimonio e in modo illimitato nel tempo – percepiscano un reddito minimo sufficiente per la sussistenza, in modo da garantire uno standard di vita minimo a tutti. Chi vorrà (e potrà), integrerà tale reddito di base con altre entrate.

Nonostante il suo nome, la proposta del Movimento Cinque è più simile al reddito minimo garantito che non a un reddito di cittadinanza. Quanto suggerito dal Movimento Cinque Stelle è più ambizioso rispetto al REIS, perché la soglia di riferimento è calcolata, seguendo criteri dell’Unione europea, a 6/10 del reddito mediano (ossia la soglia tra il primo 50% della popolazione, classificata per livelli crescenti di reddito, dal secondo 50%) per la categoria di riferimento. Riprendendo per amor di chiarezza l’esempio portato dalla proposta del Movimento, il reddito mediano per un singolo individuo è di 9.360 euro annui e 780 euro mensili. Tale cifra non solo garantisce al suddetto individuo di assicurarsi la sussistenza, ma contribuisce parzialmente a livellare le disuguaglianze in termini di spesa tra le diverse categorie di reddito.

Non si tratta tuttavia di un reddito di cittadinanza perché non universale: a poterne beneficiare sono infatti solo gli individui e le famiglie i cui redditi sono al di sotto di questa soglia. Inoltre, la misura concerne i cittadini dell’Unione Europea e gli stranieri provenienti da Paesi che hanno stipulato accordi di reciprocità sulla sicurezza sociale, escludendo di fatto molte situazioni di vulnerabilità ed emarginazione fra diverse categorie di migranti economici (che, come evidenzia il rapporto Istat, sono invece particolarmente a rischio).

Non si tratta nemmeno di una contribuzione elargita in modo incondizionato, perché ai beneficiari potenziali in età lavorativa viene richiesto di seguire dei programmi di formazione o riqualificazione professionale e di cercare attivamente un posto di lavoro (il terzo rifiuto a una proposta lavorativa implica la perdita del reddito di cittadinanza); una disposizione sostanzialmente simile a quella prevista nel quadro delle iniziative per il REIS.

 

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Tornando a quest’ultimo, le polemiche sul suo contenuto non hanno riguardato unicamente il dibattito con il Movimento Cinque Stelle. L’economista Tito Boeri, presidente dell’INPS, ha espresso negli ultimi mesi alcune perplessità sulla struttura del provvedimento, basato su risorse troppo limitate rappresentate dal miliardo di euro stanziato dalla Legge di Stabilità 2016 per il Fondo per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale che sarà attivo dal prossimo anno (e con una dotazione prevista di un miliardo all’anno). Un miliardo di euro per quasi quattro milioni e seicentomila individui sotto la soglia della sussistenza (potenziali beneficiari delle misure di lotta alla povertà) e i calcoli sono presto fatti ed evidenti nella loro insufficienza.

Al momento, infatti, si prevede che a beneficiare del REIS saranno circa un milione di persone, cosa che pone il rischio – espresso anche da Boeri – di creare “poveri di serie A e serie B”. Lo stesso tipo di perplessità sono state mosse dall’Alleanza contro la povertà (rete di oltre sessanta associazioni, create nel 2013 e molto spesasi per il reddito di inclusione sociale), la quale ritiene che siano necessari almeno 7 miliardi all’anno per attuare dei dispositivi realmente efficaci. Sette volte di più.

La questione della disponibilità delle risorse è indubbiamente cruciale (il Movimento Cinque Stelle calcola addirittura 17 miliardi necessari per il primo anno) e pone complesse questioni di finanza pubblica, teoria economica e priorità macroeconomiche nell’era della globalizzazione e del Fiscal Compact europeo. Al di là delle misure per alleviare le situazioni di povertà, rimane cruciale interrogarsi sulle cause di questa e sulle relazioni che la legano a modelli economici, crescita e disuguaglianza.

Negli ultimi anni il mondo della ricerca ha elaborato sempre più raffinate metodologie per misurare con precisione questo fenomeno: soglie, coefficienti, formule, etc. Ma la riflessione sulle cause è rimasta indietro, liquidata a toni che strizzano l’occhio a un pietismo ottocentesco sempre latente, in Italia specialmente.

Si è poveri perché non si trova lavoro, perché non si riesce a trovare un altro impiego, perché la propria occupazione è malpagata e priva di garanzie, perché il welfare non fa il suo dovere, percepito con fastidio come un erogatore di privilegi per fannulloni e non come il cuore pulsante di un sistema che promuove la giustizia sociale. Si è poveri perché una società diventa più diseguale e una società diseguale – lo sostengono persino FMI e OCSE – non cresce, avvitandosi in un circolo vizioso in cui impoverimento porta ad altro impoverimento.

Nessun assegno di sostegno al reddito potrà arrestare questo circolo vizioso da sé e per quante famiglie e quanti individui si possano aiutare a raggiungere la soglia fissata, altri ancora saranno lasciati indietro.

Il reddito minimo garantito – in qualunque sua forma – a poco serve se non inserito in un profondo ripensamento della distribuzione di redditi e ricchezza all’interno di una società, del modello produttivo su cui questa si basa e della sua dipendenza dalle dinamiche internazionali. Per quanto apprezzabile, la (ri)qualificazione professionale non serve a niente se non ci si mobilita per creare opportunità di impiego dignitoso.

In una situazione economica così intricata e difficile il REIS previsto dal ddl era il massimo che si poteva offrire? Purtroppo, di questi tempi, sembra che l’unico percorso possibile – addirittura ritenuto l’unico ragionevole – sia quello di accontentarsi, non di impegnarsi per chiedere e realizzare obiettivi più ambiziosi. Per esempio una distribuzione più giusta e la dignità del lavoro.

Invece si sono scelte modeste misure fondate su magre risorse, meglio questo anziché niente ci diciamo. Teniamolo a mente per l’estate prossima quando verrà pubblicato il nuovo rapporto Istat sulla povertà, per ricordarci – tutti inclusi: semplici cittadini, società civile, partiti politici, giornalisti, accademici e imprenditori – che anche questa volta abbiamo perso un’occasione per domandarci in che tipo di mondo e società scegliamo di vivere. E con quali conseguenze.

(Questo articolo rispecchia
il punto di vista dell’autrice,
espresso a titolo personale)