di Christian Elia
Sta succedendo qualcosa di molto grave. Nessuno lo nega, tutti debbono esserne consapevoli. Sta succedendo qualcosa che non ha, nel suo esplicitarsi, una chiara chiave di lettura e – quindi – non pone una chiara scelta tra strumenti logici di reazione. Ed è questo l’aspetto più drammatico.
Assieme al fatto che non esistono, salvo forzature inutili, schemi del passato cui fare riferimento.
A Monaco di Baviera, a Nizza, per strada o su un treno, in un aeroporto o in locale notturno. Siamo esposti nei momenti peggiori, quelli della normalità. Non hai la soglia di attenzione o di rischio professionale al quale ti espone lavorare in zone di guerra, correre dei rischi, assumerti delle responsabilità.
Non c’è scelta, non c’è alternativa. Andare a fare la spesa, uscire la sera, partecipare a un evento pubblico, recarsi al lavoro. E’ la normalità, il quotidiano, l’inalienabile. Ed è la zona più dolorosa, fragile.
Porsi di fronte a tutto questo con una ricetta semplice, in un senso o nell’altro, è l’errore più grande che possiamo commettere. Perché se ci sganciamo dai fatti, dalla diversità, dalle circostanze e dai protagonisti, resta uno stato di angoscia permanente, che ci indebolisce, ci spinge a valutare la sua nemesi (raccontata come soluzione) come un’ipotesi: uno stato di eccezione permanente. Chiamato, dai più, stato di emergenza.
La contrazione delle libertà civili, l’individuazione di un nemico collettivo e omogeneo, l’idea stessa che abbiamo un’opzione facile alla quale fare riferimento, è un grande inganno. Perché la reazione, sempre più diffusa, anche in ambienti estranei alle posizioni politiche radicali, ci sta trascinando in una palude limacciosa.
Dobbiamo reagire, dobbiamo attaccare. E allora ci si divide tra coloro che non ritengono giusto reagire, attaccare, e coloro che urlano quanto sia ormai necessario. Questa è la trappola. Qui non si tratta di essere buoni, tolleranti, illuminati, contro quelli che non ne possono più. Qui si tratta di capire che, semplicemente, non c’è una reazione che porti in salvo.
Profughi sì, profughi no. Bombardare sì, bombardare no. Arresti di massa, magari preventivi. Sospensione dei diritti, chiusura delle frontiere. Non serve a nulla, non servirà a nulla. Non è mai servito a nulla. Usciamo, uniti, dall’equivoco: non c’è da evitare una reazione di forza perché siamo buoni. La reazione non ci porta in alcun luogo sicuro.
Un minorenne con problemi psicologici, tanto quanto un gruppetto che si radicalizza in famiglia, passando invece per mini gruppo che – dopo l’esperienza da foreign fighters – torna in patria con un progetto omicida ben chiaro. Sono fenomeni differenti. Mettere tutto sotto un unico cappello, non ha senso, ed è esattamente l’obiettivo di Daesh che, a costo zero, incassa false vittorie.
Se è vero, come sostengono in tanti, che è tutto un stile di vita a essere sotto attacco, mutarlo è la grande vittoria dei ‘nemici’. Se sono le nostre libertà quelle che si vogliono distruggere e mutare, diventano proprio quelle la base dalla quale ripartire.
Che fare allora? Iniziamo dai fatti. I problemi materiali sui quali si può e si deve impattare sono di due livelli: investigativo – legislativi e socio – culturali. Nel primo livello, la partita si gioca sulla politica, nel secondo livello si gioca nel mondo dell’informazione.
Partiamo dal primo: un’azione seria e immediata, nonché una delle poche credibili e realizzabili, al di là dei proclami, è quella di dedicare massicci investimenti a stroncare il mercato delle armi. Lecite e illecite.
Non è immaginabile un mondo dove non ci siano gruppi o singoli, malati o fanatici. E’ possibile, dall’acquisto legale a combattere il racket del mercato nero delle armi, rendere sempre più difficile che questi siano armati. Nessuna lobby, nessun elemento di profitto deve venire prima di questa considerazione.
Basterà? Certo che no. Anche perché pure un innocuo furgoncino può diventare un’arma letale. E allora si palesa il secondo livello.
Angelo Miotto lo ha detto molto bene (e ne scriverà ancora): “Questo è un passaggio esiziale e necessario per affrontare una stagione di attentati nella rappresentazione mediatica. Un senso di responsabilità e rispetto che deve interrogare profondamente, e che esula da mentalità consumistiche e capitaliste che ci vogliono spettatori della violenza, pubblico, audience. O capaci solo di ricondividere in maniera pavloviana sentendoci così capaci di informare. Si ottiene esattamente il contrario”.
Non possiamo sottovalutare gli effetti di decenni di strumentalizzazioni politiche delle differenze: i pozzi sono avvelenati. Lo sono nella mente di chi uccide, che si riferisce in maniera emulativo – esistenziale a una cosmogonia della quale ignora tutto, e nella mente di chi assiste alla strage, dove le risposte si formano in tempo reale, già sazie di moventi, assassini e contesti.
Come colpevolizzare il cittadino perché corre alla conclusioni e se la prende con i musulmani, se i media per primi non si danno neanche un minuto prima di farlo? Come aspettarsi lucidità dalle persone comuni, se non si è capaci di mostrare le differenze e il livello di emulazione che unisce molte di queste esistenze borderline? Tornare a investire, con serietà, in quelle periferie che oggi diventano intellegibili è un’altra priorità, che la politica deve tornare a gestire immediatamente.
Se, in modo naturale o indotto, non si aprirà un cantiere serio tra politica e mondo dell’informazione, se non ci sarà una seria (e pubblica) riflessione sugli errori commessi in passato, il clima di tensione, paura e sospetto intracomunitario dilagherà. Ed è esattamente quel che un gruppo di esaltati nel deserto tra Iraq e Siria può sognare. Senza sforzo.
Se non ci apriamo a una stagione della riflessione, sugli errori del passato e sulle narrazioni degli altri, non ne usciremo più. Perché è il tempo di fare un passo indietro, non due avanti. E non perché ci sono i buoni e i cattivi, i duri e i mollaccioni. Basterà? No, ma non abbiamo scelta.