di Luca Rasponi
Scuola Diaz: bastano le parole. Dieci lettere che da sole rievocano l’orrore per quelle immagini, lo sgomento per quanto accaduto a Genova nella notte tra il 21 e il 22 luglio 2001 e per le sfrontate menzogne che a quella notte sono seguite.
Eppure a volte le parole da sole non bastano, e allora in soccorso arrivano le immagini: è il caso del film Diaz. Don’t clean up this blood (Daniele Vicari, 2012) e delgraphic novelDossier Genova G8. I fatti della scuola Diaz, di Gloria Bardi e Gabriele Gamberini.
Il volume, pubblicato per la prima volta da Becco Giallo nel 2008 e poi ristampato nel 2013, fa esattamente questo: mette le immagini al servizio delle parole riportate nella Memoria illustrativa della Procura di Genova, che in 261 pagine ripercorre gli eventi di quella notte sulla base delle testimonianze e dei materiali raccolti dai magistrati.
Con un risultato di assoluta efficacia: le tavole dipinte di Gamberini – che meriterebbero un formato più grande – danno vita a una sceneggiatura dallo spiccato sapore drammaturgico, che si mantiene comunque fedele al materiale di partenza, persino nel linguaggio.
Gloria Bardi trascina il lettore nell’inferno della Diaz, e per farlo non serve aggiungere molto alla realtà dei fatti, se non qualche elemento nell’intreccio e la presenza di un personaggio marginale, nel quale il lettore è libero di identificarsi fino alla sorprendente tavola finale.
Il fatto stesso di trovarsi di fronte a quella che Amnesty International ha definito «la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale» è sufficiente a stupire, a lasciare increduli, nonostante le tante cose che già si sanno sulla Diaz.
Più di tutto stupisce, lo dice la stessa autrice nella sua postfazione, il tentativo delle autorità di nascondere i fatti, inizialmente spudorato e via via sempre più imbarazzato, con bugie clamorosamente smentite dai filmati prima e dalle sentenze poi.
Nella notte tra il 21 e il 22 luglio, alla chiusura del G8 ospitato nel capoluogo ligure, quasi 500 agenti appartenenti ad almeno 5 reparti diversi fanno irruzione nell’edificio Pertini del complesso scolastico Diaz, dove sono alloggiati i manifestanti.
Lasceranno a terra 62 feriti, di cui 3 gravi e uno in coma, in quella che il vicequestore aggiunto Michelangelo Fournier ha definito “una macelleria messicana”.
>Perché? Viene spontaneo chiedersi. Una macabra “rivincita” per gli scontri dei giorni precedenti? Questa la spiegazione del prefetto Ansoino Andreassi, in quei giorni vicario del capo della Polizia Giovanni De Gennaro: “Esiste una regola non scritta per cui se ci sono delle violenze o disordini che non si è riusciti a prevenire, questi devono essere compensati da un numero maggiore di arresti”.
Il che comunque non spiega le violenza furiosa ai danni di manifestanti palesemente pacifici e le umiliazioni subite dagli arrestati nella caserma di Bolzaneto. Né può giustificare i depistaggi, le bugie nei documenti ufficiali e il tentativo di far comparire due bombe molotov sul luogo degli scontri per accreditare la versione della perquisizione d’urgenza dovuta alla presenza accertata di armi.
La rete di bugie tessuta intorno alle scelte del direttorio di nove funzionari che ccordinarono le operazioni, e delle centinaia di agenti che le misero in atto, non trova altra spiegazione se non quella di coprire interessi inconfessabili: gli interessi di chi, anche più in alto del governo italiano, voleva la testa del movimento No global.
Come si dice? “Colpirne uno per educarne cento”? Di certo, quello inferto a Genova è stato un colpo mortale per il movimento. Ma nemmeno può essere un caso che l’Italia sia stata scelta come teatro per un’operazione del genere.
Perché il nostro Paese di trascorsi su questo fronte ne ha, eccome. Nel giorno in cui ricorre il 36° anniversario della strage alla stazione di Bologna, a nemmeno due settimane dalle commemorazioni per la Diaz, è impossibile non tornare con la mente a quegli 85 morti e 200 feriti colpiti da un altro esempio di “educazione all’italiana”, anche questo raccontato nel migliore dei modi da un graphic novelBecco Giallo.
La strage di Bologna, di Alex Boschetti e Anna Ciammitti, è un altro esempio di memoria civile, un’altra dimostrazione di come le vignette possano servire – soprattuto ai più giovani – per capire davvero qualcosa nell’ingarbugliata storia di questo Paese.
Ma le ombre sono ancora molte più delle luci, se è vero che i mandanti politici – per la strage di Bologna come per i fatti di Genova – non sono mai stati identificati in una sentenza, e che i vertici decisionali dell’epoca hanno continuato a fare carriera, nelle forze dell’ordine o altrove.
E mentre il Parlamento approva finalmente una legge sul reato di depistaggio, il ddl per l’istituzione del reato di tortura riceve una nuova battuta d’arresto, ennesima beffa per le vittime della Diaz nonostante il pronunciamento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo contro il governo italiano nel luglio 2015.
La battaglia quindi non è finita, anzi: casi come quelli di Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi e Giuseppe Uva dimostrano che il destino di un’Italia «schiacciata dagli abusi del potere», per dirla con Franco Battiato, passa ancora dalla verità sulla strage alla stazione di Bologna e sui fatti della scuola Diaz.