di Maria Izzo
Questa è una piccola storia nascosta, che, a raccontarla oggi, sembra quasi banale. Narra di rotte, di strade e di uomini in viaggio senza valigia, le tasche piene solo di qualche promessa.
Alle spalle, il ricordo di un magro presente; oltre l’orizzonte una terra assolata e feconda, una riva d’approdo che da secoli osserva, protesa nel mare, transiti e incroci di popoli, lingue e culture. Ma l’aspirazione naturale di chi si era messo in viaggio, cercando una vita migliore, si scontra fatalmente con il piano inumano di chi lo respinge come un ostacolo indesiderato; lo chiama l’Altro, lo circonda con muri di odio, accuse striscianti e filo spinato; lo isola, lo sovrasta, si arroga potere di vita e di morte per calpestarne dignità e diritti. Su questa penisola di miti e poemi, dove ancora si sente l’eco di antiche leggende, inizia a risuonare il sinistro epilogo di una storia già scritta. Tutto già noto, già letto, già visto e chissà quante volte.
Eppure questa non è una storia banale, perché ogni storia diventa unica e importante quando ci colpisce in maniera diretta, soprattutto se ci ricorda di abusi e violenze su vittime che ci somigliano. O se le vittime siamo noi.
La vicenda inizia qui, in casa nostra, nella prima metà dell’Ottocento, un tempo in cui l’Italia ancora non c’era. Dalla questa stessa striscia di terra, che oggi per molti è diventato un punto d’arrivo, partono in tanti, dalla Liguria, dalla Campania, ma soprattutto dalla Puglia. Bisceglie, Molfetta, Trani, Bari sono i luoghi di origine di un viaggio in direzione Nord Est, verso la Crimea, la penisola dalla storia antica affacciata sul Mar Nero, al confine meridionale dell’Impero Zarista.
Fin qui si erano spinti già secoli prima mercanti veneziani e genovesi, che avevano fondato fra il Trecento e il Quattrocento fiorenti colonie commerciali, poi abbandonate quando gli Ottomani avevano conquistato la penisola e messo in fuga molti dei suoi abitanti. Nell’Ottocento la Crimea è un territorio dell’Impero Russo abitato da un mosaico di etnie: Tatari, che rappresentavano il gruppo più numeroso, Russi, Ucraini, Greci, Turchi, Ebrei, Polacchi, Armeni, Tedeschi. Sullo sfondo di questo composito scenario nasce una comunità di Italiani, circa 50 famiglie, gli Evangelista, i Cassinelli, i De Martino…
Sono soprattutto agricoltori, artigiani e pescatori che avevano lasciato le proprie case, dove vivevano di lavoro duro e mal pagato, in condizioni di miseria e con ben poche prospettive. Arrivano in Crimea, attratti dalle promesse di buoni guadagni su quelle fertili terre ancora intatte, e si concentrano soprattutto nell’area di Kerch, la città portuale sullo stretto che collega il Mar Nero al Mare di Azov. Trovano impiego in settori diversi: nell’industria ittica e navale, in marina, in agricoltura; alcuni diventarono piccolo proprietari terrieri e capitani di lungo corso.
La comunità italiana cresce, arrivando a contare alla fine del XIX secolo 4000 membri, circa il 2% della popolazione totale dell’area.
Contemporaneamente, getta radici sempre più profonde nel territorio, come testimonia la costruzione della Chiesa Cattolica Romana, che reca sulla facciata una lapide in italiano e in latino in ricordo della comunità che l’ha costruita. Alla Chiesa si aggiungono presto le scuole italiane, una primaria e una secondaria, una biblioteca, un’organizzazione di beneficenza.
Gli Italiani sono un gruppo molto coeso, con un’identità forte, ma non isolato, né in disarmonia con gli altri. Le tensioni piombano invece dall’alto, quando, con la caduta dell’Impero Zarista e la nascita dell’URSS, le campagne del territorio sovietico sono attraversate dal terremoto delle collettivizzazioni forzate. I piccoli proprietari terrieri accolgono in maniera tutt’altro che pacifica l’obbligo da parte delle autorità di cedere le proprie terre e di riunirsi in fattorie collettive. Mostrano resistenza e per questo le collettivizzazioni in ogni dove sono accompagnate da ondate di arresti, repressioni, persecuzioni. La sorte degli Italiani non è diversa. Davanti all’ordine di costituirsi in un kolkhoz, una fattoria collettiva poco fuori Kerch, molti si ribellano; altri invece decidono di lasciare la Crimea, spinti anche dall’imposizione dell’ateismo che impedisce loro di professare la propria fede. Questa è l’anticamera che spalanca le porte del girone infernale nel quale gli Italiani cadranno miseramente insieme a molte altre minoranze etniche: quello dei deportati, annichiliti e dimenticati.
Sono gli anni Trenta del XX secolo, il momento in cui i cittadini sovietici si mettono in marcia in una comune discesa nel baratro e su tutto il territorio dell’URSS, pur sconfinato, si scrivono pagine nere: quelle del Grande Terrore staliniano.
Accusati di essere spie di Mussolini, che nel mentre aveva preso il potere in Italia, molti Italiani vengono arrestati e torturati, alcuni vengono giustiziati, altri mandati a morire nei lager sovietici. Chi può, fugge: dei circa 4000 italiani di Kerch, nel 1940 rimangono circa 1100. Sono quelli che nel gennaio del 1942, nascosti dal caos della Seconda Guerra Mondiale, assisteranno all’atto finale della tragedia.
All’inizio di quell’anno la Crimea ritorna sovietica, dopo l’occupazione nazista. Le minoranze etniche presenti sul territorio, compresi gli Italiani, vengono accusati di aver collaborato con I Tedeschi.
L’accusa tocca i civili, che erano rimasti nella penisola senza prendere parte alle operazioni militari: donne, bambini, anziani e tutti quelli che non erano partiti per il fronte.
Nella notte fra il 29 e il 30 gennaio del 1942 viene emesso l’ordine: gli Italiani devono lasciare le proprie case in due ore.
Quella notte tutte le famiglie italiane di Crimea, comprese quelle miste, vengono imbarcate su cargo diretti da Kerch’ al porto di Novorossisk, poi stipate in treni verso Baku, l’attuale capitale azera. Di qua si imbarcano di nuovo, attraversano il Mar Caspio e sulla sponda opposta trovano un altro treno che li porterà in Kazakhstan, dove arrivano nel marzo 1942.
La strada verso l’Asia Centrale è un’andata al calvario; la metà infatti non sopravvive al viaggio e muore di fame, stenti, malattie. Chi riesce a sopravvivere non avrà miglior fortuna; in Kazakhstan, nella steppa che circonda Karaganda, molti moriranno per il freddo e per le durissime condizioni di vita, dalle quali non è possibile scappare: spostarsi senza permesso è proibito e il tentativo di fuga è punito con il gulag.
Dalle steppe inospitali qualcuno viene inviato ancora più lontano, nel lembo nord-orientale dell’Unione Sovietica, dove si trova la regione della Kolyma, il cui nome è indissolubilmente legato a sinistre memorie di oppressione, crudeltà e morte.
Gli Italiani di Crimea, una comunità che un tempo era forte e compatta, è ormai dispersa negli angoli più remoti dell’URSS.
Dopo la morte di Stalin alcuni tornano segretamente in Crimea, altri dovranno invece aspettare l’inizio del processo di destalinizzazione avviato da Khrushchev nel 1956 poter rientrare in patria.
Qui non troveranno però comitati di benvenuto. Le loro proprietà sono state confiscate dalle autorità sovietiche e mai restituite, neanche in presenza di sentenze che ne legittimano la proprietà. Sono usciti da un incubo, ma adesso devono ripartire dal nulla in un clima di ostilità diffusa, perché, nonostante le persecuzioni siano terminate, su di loro pende ancora l’accusa infame del tradimento e della collaborazione con il nemico. Gli Italiani sono costretti a stare nell’ombra, coprendo la propria identità, non solo quella anagrafica, ma anche quella culturale, che non può essere trasmessa alle generazioni successive e per questo si disperde.
La cortina di silenzio si spacca solo negli anni 90, dopo il crollo dell’URSS, quando i discendenti delle vittime delle deportazioni e delle persecuzioni iniziano ad adoperarsi attivamente per ricostruire non solo la memoria della tragica vicenda, ma anche il patrimonio linguistico-culturale perduto, iniziando dalla riapertura della Chiesa Cattolica Romana, chiusa in epoca sovietica e oggi restaurata con l’aggiunta di nuove statue, una della Vergine e l’altra di San Nicola, patrono di Bari.
Il centro di queste iniziative è Kerch, dove un tempo viveva la maggior parte degli Italiani di Crimea. Oggi sono circa 300 e si ritrovano intorno all’Associazione degli Italiani di Crimea, che opera con l’obiettivo di perpetuare la storia della comunità, ricordandone le tristi vicissitudini con una cerimonia che si tiene ogni anno il 29 gennaio.
L’associazione ha anche un altro obiettivo, il riconoscimento della deportazione subita dai loro avi, ma la via verso la sua realizzazione si mostra problematica.
Il tempo e le violenze sovietiche infatti hanno distrutto i passaporti dei deportati e qualunque altra forma di documentazione che oggi potrebbe essere utile per accertarne lo status. Gli Italiani di Crimea, quindi, sono oggi esclusi dall’accesso a eventuali compensazioni per i danni subiti e anche dalla possibilità di fare richiesta di cittadinanza italiana, per la quale è necessario dimostrare di aver posseduto il passaporto italiano o di discendere da parenti deceduti che ne erano titolari. Delle 47 domande presentate dagli anni 90 solo due sono state accettate, complici le difficoltà burocratiche sommate a una certa indifferenza da parte delle autorità italiane.
Risulta ancora più difficile immaginarne gli esiti adesso che lo status della stessa Crimea è incerto.
E’ probabile che passeranno altri decenni prima che giustizia venga fatta alla fine di questa storia piccola e nascosta, ma che è importante raccontare, non solo per perpetuare la memoria delle vittime, ma anche perché la tragedia non è mai davvero finita; infatti, si ripete ancora e all’infinito nel dramma di chiunque si metta in cammino per cercare un futuro, ma, sopraffatto da abusi deliberati e legittimati, si ritrova a sprofondare lentamente in una voragine infernale, nelle ernie strozzate del genere umano dove non arriva la civiltà, né tantomeno il diritto.
La storia è già nota ed è sempre la stessa, anche se non avremo un baffuto autocrate da accusare, puntualmente in ritardo, di crimini contro l’umanità. Anche se il pretesto accampato per nascondere l’oppressione non si chiama più guerra, ma crisi economica. Avessimo orecchie più fini, non faremmo nessuna fatica ad ascoltare le storie di oggi e sentirle tristemente legate a quelle di ieri. Ma in qualche punto, chissà dove nel corso del nostro cammino, abbiamo perso l’udito.