che, in Sardegna, ci ricorda come tutti apparteniamo ad ogni luogo e ogni luogo ci appartiene
di Maria Elena Delia
Lasciandomi Stintino alle spalle, dopo le intense giornate dedicate alla terza edizione del festival internazionale di documentari “Life after oil”, guidavo verso sud lungo le strade tipicamente incandescenti dell’agosto sardo e continuavo a domandarmi quale sarebbe stato il modo più completo ed incisivo per raccontare questo festival, così giovane ma con un’identità già così solida e riconoscibile. Pensavo a quanti e quanto complessi fossero i livelli attraverso cui questa straordinaria manifestazione si articola e, più ci pensavo, più mi rendevo conto che trascurarne anche solo uno sarebbe stato imperdonabile, rendendomi conto che l’unico modo per spiegare cosa sia oggi “Life after oil” è, come nelle migliori tradizioni narrative, cominciare semplicemente dall’inizio.
Quando alcuni anni fa Massimiliano Mazzotta, fotografo e regista leccese trasferitosi a Milano e oggi ideatore e direttore artistico del festival, capitò quasi per caso in Sardegna, ancora non sapeva che l’incontro con l’isola avrebbe influenzato enormemente la sua vita.
La Sardegna è una terra che non fa sconti, non ha mezze misure e se decide di chiamarvi, difficilmente riuscirete ad ignorare la sua voce.
Massimiliano scoprì ben presto che, oltre ad essere luogo di rara bellezza, la Sardegna è anche una terra martoriata da problemi gravissimi e per lo più ignorati da media e istituzioni, primo tra i quali l’essere stata sistematicamente violentata con l’imposizione sul suo territorio di enormi industrie e basi militari che, se forse hanno inizialmente abbassato gli elevatissimi livelli di disoccupazione che si registrano sul territorio sardo, hanno però poi avuto effetti talmente devastanti sull’ambiente e sulla salute dei cittadini da far apparire qualunque altro aspetto positivo totalmente trascurabile.
Quando Mazzotta si imbattè nella raffineria Saras a Sarroch, spaventoso pachiderma petrolchimico di proprietà della famiglia Moratti, decise di produrre Oil, un documentario in cui, senza filtri né censure, si provavano ad approfondire ed analizzare le possibili connessioni tra l’incremento di malattie mortali e di danni ambientali nel territorio e la presenza della raffineria.
Era il 2009 e “Oil” ebbe una risonanza straordinaria, perché sollevava con forza interrogativi molto scomodi legati a uno degli ambiti più delicati e cruciali attorno a cui orbitano l’economia e la politica del nostro pianeta: l’energia e le sue fonti, il petrolio e le possibili alternative ad esso, il rispetto per il nostro pianeta nelle sue più variegate accezioni. Massimiliano si rese conto che “Oil” sarebbe stato solo l’inizio di un lungo percorso e di aver solamente cominciato ad affrontare un tema di enorme complessità, la cui analisi accurata avrebbe avuto bisogno di una piattaforma più ampia, in cui poter allargare lo sguardo, affrontando il tema dell’energia e della tutela dell’ambiente e del nostro stesso stile di vita a 360 gradi, moltiplicando le voci portatrici di testimonianze e innescando un processo di scambio e di confronto.
Nacque così “Life after oil”, che vide svolgersi la sue prime due edizioni nel 2014 e 2015 a Martis, piccolo paese dell’entroterra sardo e approdare quest’anno a Stintino.
In Italia non sentiamo certamente la mancanza di festival di cinema e documentari (specialmente dedicati alle tematiche ambientali) e personalmente ne sono una vorace frequentatrice, ma il dna di “Life after oil” è senza alcun dubbio unico, per la sua stessa genesi, per il legame con il territorio sardo che si annoda armonicamente con una programmazione di respiro assolutamente internazionale, per la sua indipendenza e la sua scelta di una linea di autonoma coerenza, così rare di questi tempi.
L’edizione di quest’anno prevedeva tre sezioni: documentari internazionali, documentari italiani e cortometraggi. Vorrei potervi raccontare ogni singola storia proiettata sullo schermo che, per quattro giorni, nella splendida piazza del porto vecchio di Stintino, ha raccontato a un pubblico attentissimo e fedele il nostro pianeta, il nostro tempo, la nostra umanità e le difficili sfide che ci troviamo e ci troveremo sempre di più a dover affrontare se vorremo almeno tentare di lasciare a chi verrà dopo di noi un mondo in cui poter vivere e non solo sopravvivere (a stento).
La varietà della programmazione è stata straordinaria, dal punto di vista delle tematiche affrontate, degli stili narrativi utilizzati e delle aree geografiche rappresentate, mantenendo però il denominatore comune sempre delineato con chiarezza.
Se penso, ad esempio, ai due documentari a cui è stato assegnato, ex equo, il premio per la sezione italiana, penso a due opere diversissime tra loro, ma accomunate dallo stesso identico obiettivo. Il primo, U Ferru (del bravissimo regista Marco Leopardi, non nuovo a firmare opere di grande impatto), è il racconto poetico, e allo stesso tempo ruvidissimo, di un angolo molto speciale di questa Italia, tra Scilla e Cariddi, un angolo in cui per generazioni si è praticata e tramandata la pesca del pesce spada con l’arpione, “u ferru” appunto. Una tradizione secolare che poneva l’uomo e l’animale uno di fronte all’altro, ad affrontarsi in una sfida quasi paritaria in cui la caccia implicava il rispetto dell’intelligenza e della libertà dell’animale, la cui cattura poteva avvenire solo grazie al coraggio e all’abilità del pescatore, come già Melville raccontò molto meglio di come mai potrei fare io.
U Ferru mette a confronto due generazioni, quella di un padre pescatore orgoglioso della sua professione, che per lui è arte e anche religione in un certo senso, e quella del figlio, studente di biologia marina, combattuto tra l’amore per il mare e la sua fauna, che non vorrebbe mai veder violare, e l’amore per il padre e le tradizioni che rappresenta. Attraverso le riflessioni e le testimonianze di questi straordinari esseri umani,U Ferru racconta una storia universale, quella della difficile scelta tra tradizione e progresso, tra piccole economie sostenibili ed economie di larga scala che necessariamente portano con sé la totale assenza di rispetto per l’ambiente a cui attingono. La pesca con l’arpione è ormai quasi sparita dallo Stretto e Giuseppe, lo studente di biologia marina, oggi vive di pesca, quella tradizionale però, senza arpione, senza poesia, ma probabilmente con la possibilità di poter pagare le bollette a fine mese.
Il secondo documentario vincitore, Behind the Urals, del regista Alessandro Tesei si muove in un territorio completamente diverso: l’Asia centrale, gli Urali, la centrale nucleare russa di Mayak, che pochissimi di noi conoscevano, non sapendo nemmeno che fu la protagonista di uno dei più gravi incidenti nucleari della storia, ben più grave di quello a noi più noto di Chernobyl.
Alessandro Tesei pone l’accento sulla gravità del silenzio che spesso circonda episodi gravissimi come quello che vide il territorio e la popolazione di Mayak irrimediabilmente contaminati per generazioni, ricordandoci che oltrepassare certi limiti nel nome del progresso tecnologico, ha sempre un prezzo, spesso molto alto, da pagare.
Mentre guidavo verso il sud di quest’isola che amo così profondamente, pensavo a quanto importanti fossero le riflessioni e gli spunti emersi durante i quattro giorni di “Life after oil”, temi che riguardano tutti noi, la nostra salute, il nostro futuro. Pensavo ai registi e ai produttori di molte di queste opere, che sono riusciti a produrre dei documentari straordinari nella totale, o quasi, assenza di supporto da parte delle nostre istituzioni, con fatica immane, ma con egualmente immane ed eroica determinazione.
E pensavo che il festival è appena finito e io sono già curiosa di sapere cosa Mazzotta e il suo straordinario team ci proporranno tra un anno, sempre qui, in terra sarda, dove proprio ieri mi sono sentita dire: “Noi sardi siamo orgogliosissimi delle nostre radici, ma proprio perché siamo isolani, conosciamo il concetto di limite e abbiamo imparato a superarlo. Così, quando qualcuno mi chiede da dove vengo, io non rispondo mai che sono sardo, però rispondo con una parola sarda: ‘sono di tottue’, appartengo a ogni luogo”.
E mentre guidavo verso sud pensavo che proprio questo è il denominatore comune di “Life after oil”: apparteniamo ad ogni luogo e ogni luogo ci appartiene.
L’immagine in apertura è tratta dalla pagina Facebook di “Life after oil”