di Sabino Paparella
tratto da: Iconocrazia 9/2016 – “Ritorno al conflitto” (Vol. 2), Saggi
1. Cosa rende “politico” un conflitto? Per rispondere a questa domanda – uno dei compiti più interessanti, mi sembra, che il lavoro filosofico possa proporsi in merito alla questione attorno a cui ruota questo numero della rivista – suggerisco di partire da due esempi in negativo, due fatti tratti dalle cronache dei giorni in cui questo intervento prendeva forma: la strage di Ankara del 10 Ottobre 2015 e la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 21 Luglio 2015, che ha condannato l’Italia per la mancanza di un riconoscimento legale delle unioni civili. Si tratta di due vicende a prima vista estranee, ma che vorrei tentare di considerare come epifenomeno di una medesima sottrazione del conflitto, e in particolare di ciò che rende quel conflitto, appunto, politico.
Nell’un caso, la strage di Ankara, il dissenso di un corteo pacifista, che paradossalmente si esprimeva per la cessazione di un altro “conflitto” (nel senso proprio di guerra guerreggiata), quello che vede le forze governative turche opporsi ai separatisti curdi, viene violentemente soppresso nel sangue.
I kamikaze con il loro gesto reprimono il dissenso di coloro che, protestando, manifestano la realtà di chi, da cittadino turco, si oppone però al sistematico annientamento dei curdi, e realizza pertanto un chiasmo identitario per cui si può essere al contempo turchi e filocurdi. Nell’altro caso, invece, lo sfarinamento del conflitto politico avviene in maniera più sottile e apparentemente anodina: una corte di giustizia internazionale, richiamandosi all’articolo 8 della Convenzione sui Diritti Umani, pretende di sostituirsi alla dialettica parlamentare di uno Stato e “impone” che avvenga una deliberazione politica.
In questo caso è l’ipertrofia della giuridificazione della lite a mettere a tacere lo scandalo della contesa politica: la sfera giuridica assume su di sé un processo che dovrebbe appartenere all’agone politico.