Serbia-Croazia, rapporti difficili

Proseguono senza sosta le frizioni tra Belgrado e Zagabria, prigioniere entrambe di un passato che riemerge di continuo nell’attualità

di Francesca Rolandi, tratto da Osservatorio Balcani Caucaso

Il 18 luglio scorso la Serbia ha aperto i capitoli 23 e 24 per l’accesso all’Unione Europea superando il blocco frapposto dalla Croazia sino ad allora, e dopo che, poco meno di un mese prima, vi era stata una dichiarazione congiunta dei due presidenti, Kolinda Grabar Kitarović e Aleksandar Vučić, che a Subotica avevano espresso il loro impegno per un miglioramento delle relazioni bilaterali e la risoluzione delle controversie ancora aperte.

Tuttavia, a circa 6 settimane di distanza da quest’incontro, i rapporti tra i due vicini hanno di nuovo toccato uno dei punti più bassi della loro storia recente, come appare dalla guerra delle note di protesta in corso: quattro ne ha inviate Belgrado nel giro di una settimana a Zagabria, che ha risposta a sua volta con una. Il premier Vučić ha inoltre indirizzato lettere alle maggiori cariche della Commissione europea con cui ha denunciato la situazione nella regione.

Una delle questioni che hanno portato nuovo carburante al conflitto latente affonda ancora una volta le radici nella storia della Seconda guerra mondiale e dell’immediato dopoguerra, un’epoca che, opportunamente strumentalizzata, si trova spesso ad agire con forza sul presente.

Con un processo lampo durato solo 4 giorni e intrapreso su richiesta dei discendenti, è stata annullata la sentenza di condanna per collaborazionismo emessa nel 1946 dallo Stato jugoslavo a carico di Alojzije Stepinac, arcivescovo di Zagabria ai tempi dello Stato indipendente croato (NDH), successivamente promosso a cardinale da Pio XII.

Che quello contro Stepinac sia stato un processo politico in un momento di resa dei conti del regime nei confronti della Chiesa cattolica è indiscutibile, come incontestabilmente selettiva fu l’analisi delle prove da parte del procuratore Jakov Blažević, che ignorò documenti di provenienza occidentale secondo i quali l’arcivescovo avrebbe protestato con le autorità in occasione di alcuni dei peggiori massacri.

Tuttavia, ciò non allontana le ambiguità dalla figura dell’arcivescovo. Se i suoi difensori si appellano a una sua pretesa funzione esclusivamente religiosa nei termini del mandato durante lo Stato indipendente croato, quando venivano compiute conversioni forzate sul territorio di sua giurisdizione ecclesiastica, questa appare in contrasto con il fatto che Stepinac si schierò con forza contro il regime comunista nel dopoguerra.

La sua beatificazione da parte di papa Wojtyla nel 1998 ha incontrato forti resistenze da parte di settori sia ortodossi che ebraici che ne hanno sottolineato le supposte connivenze con il regime. La delicatezza della questione è testimoniata dal fatto che il Vaticano ha di recente creato una commissione mista cattolico-ortodossa per appurare alcune circostanze storiche della vita del cardinale in via di canonizzazione.

In una nota di protesta indirizzata da Belgrado a Zagabria l’annullamento della sentenza è stata definita una riabilitazione del fascismo e della Stato indipendente croato, attacco al quale il ministro degli Esteri croato Miro Kovač ha risposto accusando la Serbia e il suo ministro degli Esteri Ivica Dačić di utilizzare lo stesso vocabolario grande-serbo di Milošević in un tentativo gratuito di destabilizzare la Croazia in un momento delicato dopo lo scioglimento del parlamento e vicini alla commemorazione dell’operazione Tempesta.

Interessante notare che nella disputa a confrontarsi sono due governi tecnici che dovrebbero occuparsi delle questioni contingenti, in attesa, da parte croata delle elezioni, da parte serba della formazione di un nuovo governo. Inoltre, l’annullamento della condanna si inserisce in un trend regionale in cui si è distinta anche la Serbia con la riabilitazione del leader del movimento cetnico Draža Mihailović, quella in corso di Milan Nedić, a capo del governo quisling serbo e la precedente canonizzazione del vescovo in odore di antisemitismo Nikolaj Velimirović.

La revisione di processi che furono senza ombra di dubbio un prodotto dell’atmosfera dell’epoca, lontani dallo stato di diritto, viene così trasformata in una popolarizzazione postuma di personalità che portano quantomeno responsabilità civili e morali per il conflitto interetnico scatenatosi durante la Seconda guerra mondiale.

Quanto il gioco dei ruoli della Seconda guerra mondiale incendi tuttora la scena politica in Croazia è testimoniato dal 75° anniversario dell’insurrezione antifascista, celebrata in Lika a Srb sotto uno stretto controllo della polizia per le provocazioni del Partito autoctono del diritto croato che dal mese precedente aveva presidiato la zona allo slogan “Abbiamo conquistato Srb”.

Il leader Dražen Keleminac, al quale era stato proibito dalla polizia l’accesso al villaggio per sei mesi, ha guidato il blocco della statale della Lika e una protesta sul luogo del memoriale, tra simboli filoustascia e un tentativo di zittire il discorso di Stipe Mesić.

L’ex presidente della Repubblica ha successivamente definito doloroso il fatto di doversi riunire dietro un fitto cordone di polizia per commemorare un evento che dovrebbe essere considerato un caposaldo nella costruzione dello stato croato.

La spinta verso la riabilitazione di ogni oppositore del passato regime comunista in Croazia ha di recente portato all’erezione di un monumento a Miro Barešić nel suo villaggio natale di Drage.

Barešić, un emigrante croato appartenente al movimento filo-ustascia HNO [Hrvatki narodni otpor, Resistenza nazionale croata], assurse all’onore delle cronache nel 1971 per l’omicidio di Vladimir Rolović, ambasciatore jugoslavo in Svezia, paese nel quale fu condannato all’ergastolo.

Dopo varie vicissitudini e uno sconto di pena, tornò in patria per unirsi all’esercito croato e morì nel 1991 in circostanze non chiare. Alla commemorazione hanno presenziato anche i ministri alla Cultura Zlatan Hasanbegović e quello ai Veterani Tomo Medved che lo ha definito uno dei più grandi patrioti croati.

Per quanto le controversie di un passato più remoto lascino tuttora un segno sull’attualità politica, sono i crimini di guerra degli anni ’90 a dominare la politica regionale.

In questo contesto va inserita la decostruzione della condanna in primo grado a 10 anni emessa nel 2009 nei confronti di Branimir Glavaš per crimini contro civili serbi a Osijek. Nel 2015 la sentenza è stata annullata dalla Corte costituzionale che l’ha rinviata all’Alta corte per un nuovo processo.

E proprio le indagini sui responsabili dei crimini di guerra perpetrati negli anni ’90, oltre ad essere una ferita aperta nella società civile con un numero risibile di condanne in tutti i paesi coinvolti, sono alla base del principale argomento con il quale la Croazia ha cercato di bloccare l’accesso della Serbia all’Unione europea. Infatti, il principio della giurisdizione regionale dei tribunali serbi per tutti i crimini commessi sul territorio della ex Jugoslavia viene aspramente contestato da Zagabria. Nel frattempo si è aperto un altro fronte di conflitto tra il Tribunale penale internazionale dell’Aja e Belgrado che rifiuta di consegnare tre membri del Partito radicale accusati di avere influito sui testimoni nel processo contro il loro leader Vojislav Šešelj, conclusosi con una piena assoluzione nel marzo 2016.

In questo contesto si prepara la commemorazione dell’Operazione Tempesta (Oluja) di oggi, emblema delle memorie divise dei due fronti: simbolo della vittoria e del recupero dell’integrità territoriale per la Croazia, della pulizia etnica contro i civili serbi per la Serbia. Un appuntamento che si prospetta divisivo non solo per i due paesi vicini ma anche per la stessa società croata.

Anche quest’anno la cerimonia sarà sdoppiata su due centri, Knin, ormai trasformatasi in un raduno della destra croata dove si terrà un concerto di Thompson, e Zagabria, dove si svolgerà la parte più istituzionale alla quale presenzieranno anche i rappresentanti del partito socialdemocratico.

A distanza di 25 anni dallo scoppio del conflitto, le relazioni tra Belgrado e Zagabria continuano a caratterizzarsi per un trend negativo e una conflittualità esasperata, dietro la quale si nasconde la mancante volontà delle rispettive classi politiche di confrontarsi con i lati oscuri della loro storia più o meno recente. Mentre è generalizzata la convinzione che il nazionalismo paghi in termini elettorali.