In questo tempo estivo vi racconteremo brevi note di viaggio, incontro, vita vissuta in una città che ognuno di noi ha scelto per i più diversi motivi. Oltre le guide turistiche, dentro strade e su muri, nelle piazze e in piccoli ricordi
Di Andrea Cardoni
Iringa, per me, è una strada. Iringa sono tante strade: sentieri di terra e strade nere. Una strada larga fatta di acqua che è il fiume Ruaha. Iringa per me sono le prime parole che ha scritto Ben Okri in un libro che si chiama “La via della fame”: “In principio era un fiume. Il fiume diventò una strada, e la strada estese le sue ramificazioni sul mondo.
E giacchè, un tempo, la strada era stata fiume, la sua fame era insaziabile”. Ci sono arrivato sempre di notte, a Iringa, partendo da Dar Es Salaam. Poi sempre più dentro la pancia della Tanzania. Fino a Iringa città c’è la strada nera e poi svolti a sinistra e inizia la strada rossa, quella che porta ai villaggi dell’altopiano del distretto di Kiolo, di Iringa Regione, con le buche e la polvere, quella che all’ennesima imbarcata di polverone entrato nell’abitacolo della macchina ha fatto dire una volta a Mauro: “se starnutisco faccio un vaso di terracotta”.
Dopo un’ora di strada sterrata c’è Pomerini, che prima che arrivassero i tedeschi (Pomerini viene da Pomerania, regione europea tra la Germania e la Polonia) si chiamava Ng’uruhe, che in kihehe dovrebbe significare “rossastro” il colore della terra rossa di queste parti. Sembra che la terra sia diventata così rossa dal sangue versato dalla resistenza che fecero i wahehe all’invasione tedesca.
Adesso, invece, Mazengo dice che “quando arriverà l’asfalto sarà un grande giorno”.
Era qualche anno fa: c’era Francesco, un co-viaggiatore di un viaggio che avevamo fatto dall’Uganda alla Tanzania, passando per il Kenia, tutto in autobus, e in questo viaggio Francesco raccontava che un suo amico per descrivere un posto che in qualche modo gli piaceva diceva che era “arieggiato”. Non diceva se un posto fosse bello o bellissimo, lui diceva: “È arieggiato”. Ecco: i villaggi dell’altopiano di Iringa, sono arieggiati: a 1500 metri sopra il livello del mare sono arieggiati e freddi.
I sentieri sono larghi quanto la pianta di un piede. Forse per non sbagliare strada quando di notte, quando è tutto buio, se stai attento a dove metti i piedi, riesci a seguire la strada: è il sentiero stesso che ti rimette in carreggiata. I sentieri sono fini quanto i due tagli che ha Mazengo ai lati degli occhi: dice che li facevano ai ragazzini wahehe tanto tempo fa, quando era un ragazzino pure lui, e servivano a guardare sempre avanti, a non distogliere lo sguardo dalla loro strada, a non guardare furtivamente di lato. Iringa sono le foglie di un thé profumatissimo che pare che se le stanno prendendo i cinesi o i finlandesi.
Iringa sono le guglie delle cattedrali dell’area archeologica di Isimila. Se vai a Iringa città prendi la farina, il riso, ah pure lo yogurt asas quello alla vaniglia, poi pure mango-piripiri (una marmellata di mango e peperoncino che non lo so come fa a piacergli a Nicola).
Ecco, la città di Iringa per me è stata una lista della spesa da fare per quando ero a Pomerini.
A Iringa città, in alto, sulla collina da dove si vede tutto l’altopiano, ci stanno i distributori della benzina, i negozi col frigorifero, il mercato, quello che vende lo yogurt, le verdure impilate, la banca, la posta col parcheggio dentro,le insegne dei negozi disegnate, i marciapiedi, i pomodori impilati a piramide nel mercato, i materassi, l’ulanzi, le ciabatte fatte di copertone dei camion, la stazione degli autobus, le borse cinesi, i gommisti i venditori di sim, gli ombrelli del Manchester United, Njema Kraft dove ci si comprano le cose fatte fatte da persone con disabilità, gli ombrelli dell’Arsenal, Njema Kraft dove (però?) i capi sono tedeschi, la marmellata che fanno quelli di Cefa, la posta, l’internet cafe, i cartelli stradali, quello che vende mango-piripiri, le parrucchiere, gli ombrelli del Chelsea, le signore che vendono i kanga, i portabottiglie di plastica rossi della coca cola, il cemento, i dalla-dalla, gli ombrelli del Liverpool, i sarti con la macchina da cucire cinese, il pedale della macchina da cucire cinese, le bottiglie di vetro della coca cola vuote nei portabottiglie rossi di plastica, gli spartitraffico, la stazione degli autobus, i pacchi di spaghetti cinesi, l’ostello vicino alla stazione dove Elena dice che dormire “è un’esperienza che il suo perché” con tutto quello che vorrà dire per lei.
Iringa città è la storia della resistenza del capo Mkwawa che mi ha raccontato un professore di una scuola secondaria, Aukley Fweni, il giorno che stavamo facendo la strada insieme partendo dai villaggi dell’altopiano.
Il 18 agosto 1891, i wahehe guidati da Mkwawa si scontrarono contro i tedeschi a Lugalo (a 27 km da Iringa) guidati da Von Zelweski, detto Bwana Nyundo (“Signor Martello”).
Nel 1893 i wahehe si spinsero a combattere i tedeschi fino a Kilosa, ma nell’ottobre 1894 vennero sconfitti proprio a Kalenga. In seguito a questa sconfitta Mkwawa si nascose nella foresta e continuò a combattere per altri quattro anni. Vistosi braccato, il 19 giugno 1898 si suicidò e la sua testa venne portata in Germania. Furono gli inglesi, dopo la fine della seconda guerra mondiale, a riportare il teschio di Mkwawa a Kalenga.
Questa è Iringa per me e che il cielo la salvi “dalla guazza e dagli assassini”