di Alessandra Governa
L’intervista ad Andrea da Villanova di Camposampiero, uno degli attivisti allontanato lunedì 1° agosto da Ventimiglia per la sua attività in sostegno dei migranti in transito e per la sua lucida e ferma denuncia delle politiche e prassi italiane ed europee in fatto di gestione delle migrazioni è della sera di venerdì 5 agosto. Tra la telefonata durata oltre un’ora e la restituzione del racconto in forma scritta su questa pagina, sono trascorsi giorni densi di eventi, denso di parole usate a proposito e a sproposito, denso di botte, di fughe, di richieste. Denso di vite impigliate a pochi metri dal confine con la Francia.
Tra la telefonata e la pagina scritta c’è anche la mia ricerca per dare una forma alle parole di Andrea. Una forma diversa da quella stereotipata che finora è stata affibbiata da chi probabilmente non si è mai fermato ad ascoltarlo. Non necessariamente per concordare, ma almeno per riconoscerlo come interlocutore.
Andrea è biondo, ha due orecchini a cerchio e una propensione alle insolazioni e a portare bombole del gas per cucinare in campi informali per migranti. Ha un leggero accento padovano e una cantilena che lo porta a concludere le frasi come fossero tutte domande. Andrea è uno che fino a lunedì 1° agosto ha dato la sua risposta a una domanda precisa “a un diritto impeccabilmente esplicitato” come dice lui ovvero al diritto al movimento (quell’ open the border, we’re not going back che spesso si legge scritto sui cartelli improvvisati dei migranti).
Andrea usa costantemente il noi, perché Andrea non parla al singolare, parla al plurale. Un noi collettivo difficilmente definibile (e che quindi non chiamerò almeno in questo spazio, no border).
Andrea non asserisce inequivocabilmente, ma inizia le frasi con io penso, mi pare, mi hanno riferito che. Asserisce solo una volta, quando racconta della sua sensazione di stare dalla parte giusta.
La parte giusta, per lui, è iniziata con il lavoro a Padova nella primavera dell’anno scorso, proseguita nell’estate con la permanenza ai Balzi Rossi prima e con quella a Calais poi, esperienza quest’ultima che gli ha fatto più male che bene ma che gli ha lasciato la voglia di tornare nuovamente a Ventimiglia.
“A Calais vedi e vivi una profondissima depressione. E’ lo sconforto di chi non riesce a passare. Ci vogliono una tenacia e una determinazione che non tutti hanno per provare e riprovare l’attraversamento.” A Calais Andrea ritrova tanti amici incontrati nelle giornate di Ventimiglia, nel campo informale ai Balzi Rossi, nella resistenza sugli scogli. E allarga la visione. Mette insieme i puntini. “Quando vedi che l’entusiasmo dei Balzi Rossi scema totalmente a Calais, viene naturale chiedersi se la domanda vera da farsi a Ventimiglia non sia Perché passo? ma Ha senso passare?”. Il non ci sto non basta e si fa avanti la proposta, la lotta in positivo per un diritto, che prima ancora che un diritto, è un bisogno.
La parte giusta di Andrea, quest’anno ha trovato una repressione sempre più forte, inimmaginabile l’anno scorso. Repressione che ha tante facce: l’etichettamento, la rabbia, la vendetta, ma anche la paura e l’accortezza nel fare le cose, per tenere dove possibile un basso profilo, per non provocare gratuitamente. In una logica di contrapposizione quasi ontologica, il confine tra espressione di una posizione e provocazione è però concetto quanto meno labile.
“Fino a quando non si è profilata l’apertura del campo governativo a gestione Croce Rossa abbiamo dialogato con le organizzazioni del territorio. Poi però, quando anche la parte più critica della città ha accettato la soluzione della Prefettura, noi non siamo stati più disposti a collaborare.”
Il campo governativo, attualmente sito al Parco Roja, fuori dal centro cittadino e con una capienza formale di 360 posti (raddoppiati dalla sistemazione temporanea di brandine sotto un cavalcavia ma comunque all’interno del recinto del campo) ha una genesi ormai abbastanza nota. Per circa due mesi e fino al 16 luglio i migranti, con punte anche di 1000 persone, sono stati ospitati per lo più nei locali sottostanti la Parrocchia di Sant’Antonio, nel quartiere delle Gianchette, zona popolare della città. Le difficoltà sia logistiche sia di convivenza sono facilmente immaginabili. Alla “chiusura” della Chiesa (rimasta solo come accoglienza per nuclei famigliari, donne e minori) i migranti sono stati trasferiti al nuovo campo e le paure sono state chiare fin da subito.
“A persone che già hanno subito di tutto, dalle botte, alla tortura, alla detenzione senza motivo, come si fa a chiedere di affidarsi a un luogo in cui ci sono cancelli, un cartellino su cui c’è la fotografia e a traduttori di cui è difficile fidarsi? Le domande che si faranno sono dove andrà questa foto? Chi la userà? Cosa diventerà questo campo?”
Le critiche al campo formale non arrivano solo dai migranti. Anche gli attivisti ne rilevano subito metodi e pratiche violente (dalla presenza della polizia all’ingresso al sacchetto del pasto, esiguo e sempre uguale) ritenute lesive della dignità della persona.
“Era chiaro non solo che i migranti non volessero stare al campo, ma che il campo stesso non fosse pronto o adatto ad accogliere così tante persone. Il costituirsi di un accampamento informale, nelle stalle poco lontane, è stata una conseguenza naturale. Spesso ci siamo sentiti dire che siamo noi ad aver sobillato i migranti a boicottare il campo governativo, ma non è vero. Non sono forse anche i migranti esseri pensanti?”
Le stalle distano poche decine di metri dall’altro campo e non hanno alcun servizio. Nella due settimane antecedenti lo sgombero sono arrivate ad accogliere quasi trecento persone, con punte di oltre quattrocento nei momenti di maggior afflusso. La presenza (o come dice Andrea la presa in carico di un’emergenza a cui nessuno stava dando risposte) degli attivisti si è andata via via intensificando dopo nemmeno 48 ore dalla formazione dell’accampamento.
“Affrontata la prima emergenza ovvero la fame (i ragazzi letteralmente si contendevano ogni singolo frutto che veniva distribuito loro) ci siamo resi conto che il problema serio da affrontare era quello dell’atteggiamento vittimistico/assistenzialista che avevano le persone. Bastava che fossi bianco perché ti chiedessero tutto.”
Come si risolve? Costruendo insieme, partendo dalle azioni pratiche quotidiane, come tagliare la verdura, uno spazio di libertà e di responsabilità. Piano piano è arrivato un fornello da campo, sono arrivati viveri da cucinare e un mobile dove conservarli. E’ arrivata l’autogestione dello spazio cucina. E’ arrivato l’allaccio dell’acqua. Sono arrivate le cartine dell’Italia e dell’Europa per mostrare ai migranti dove fossero. E’ arrivato l’orientamento legale e il supporto medico di base.
“Cucinare insieme ha funzionato. Così come fare assemblee per le decisioni condivise sulla gestione dello spazio ha reso meno egoistico l’approccio di ciascuno. Tante persone venivano ad aiutarci e a sostenerci, da chi ci portava tutti i giorni delle taniche di acqua a chi ricaricava le batterie utili per i cellulari.”
Quello che stupisce di Andrea è la precisione, senza rabbia e senza foga, anzi con un po’ di ironia, con cui ripercorre quello che secondo lui è stato un progetto politico per trasformare quello che fino al momento della rottura sulla decisione del campo era un disagio, in un fastidio ben palesato. Progetto politico con nomi e cognomi: Prefettura, Questura e Caritas.
“E’ stata un’escalation si può dire: dalle assemblee interrotte volutamente dalla distribuzione dei pasti, al sabotaggio della bombola del gas, alla sospensione della fornitura dell’acqua fino al sequestro della cucina e di tutte le derrate alimentari perché “non a norma” dal punto di vista igienico sanitario”. E certo, erano in una stalla mai utilizzata in un’area di ferrovie dello stato adibita a scalo commerciale mai sfruttato appieno!
E hanno cominciato a piovere fogli di via come se non ci fosse un domani per soggetti considerati e fatti percepire all’opinione pubblica per lo più come socialmente pericolosi.
“Spiace, spiace tanto perché hanno costruito piano piano l’odio nei nostri confronti. Tutto quello che noi volevamo fare è per i migranti e per Ventimiglia. Noi non vogliamo un imbuto qui. Noi non vogliamo il confine chiuso e non pensiamo che un campo gestito così sia una soluzione.” Prende un respiro, aggiunge un ecco, bon. Poi sospira di nuovo. “Non credo che l’abbiamo cercata noi la rottura, tranne che con Caritas. E’ difficile per me smettere di dialogare, ma se penso che una cosa è giusta ecco, bon. Se no passa tutto”.
Il resto è un susseguirsi di atti forse sproporzionati: lo sgombero del campo informale alle sette della mattina di un lunedì di inizio agosto, il trasferimento obbligato dei migranti al campo CRI e il trasferimento di cinque attivisti in Commissariato. L’attesa fino alle 15,00 e poi il rilascio con in mano un foglio di via per sedici comuni dell’imperiese, una multa da 516 euro per occupazione di suolo e edifici privati e una multa che può arrivare fino a oltre 10,300 euro per organizzazione di manifestazione con conseguente completo blocco del traffico stradale per le giornate del 3 e 4 luglio scorsi in cui circa trecento migranti hanno chiesto l’apertura della frontiera occupando la strada per due giorni. Andrea, in quell’occasione, era arrivato da qualche ora, il tempo necessario per (ricordate l’inizio?) prendersi un’insolazione con i fiocchi.
“Cosa rimane? Tanti amici, in giro per l’Europa che mi chiedono come sto e dove sto. Rimane la sensazione che con le misure che hanno preso nei miei confronti, mi hanno voluto fare una serie di dispetti che potevano risparmiarsi. Rimane che è stata una giornata assurda. Rimane la tristezza nel sentire i migranti dire che l’italia non è bella, esattamente il contrario di quello che emergeva l’anno scorso ai Balzi Rossi quando dicevano Italia bella, ma povera.”
L’Italia non è bella se davvero utilizza tortura e violenza per applicare le leggi richieste dall’Europa soprattutto nel momento degli sbarchi e delle identificazioni.
L’Italia non è bella se non sa gestire un flusso di persone che non può essere considerato (solo) emergenziale proprio perché è nella natura umana muoversi e non lavora in e con l’Europa per la riduzione di alcune delle cause delle migrazioni. L’Italia non è bella se accetta la violenza come strumento di ordine pubblico.
Prende un altro respiro Andrea, un altro ecco, bon. Ora deve risolvere la questione della multa, confrontarsi con la paura che le sue scelte possano ricadere anche sui suoi genitori, capire cosa fare dopo.
Certo è che rimane nella lotta, nonostante il foglio di via.