Lampedusa: “Mamma, sono vivo”/1

Che cosa succede ai migranti che sbarcano sulle coste dell’isola siciliana?

di Alessandra Governa

“Già dall’aereo guardavo il mare e non riuscivo a godere per intero della sua bellezza. A Lampedusa respiri che lì la gente c’è proprio morta. Nell’indifferenza più totale.”
Avrei voluto che ascoltaste anche voi la voce di Fiorella che mi racconta del suo arrivo sull’isola per la summer school “Mobilità Umana e giustizia globale” organizzata dall’Università Cattolica di Milano, fondazione Migrantes, SIMI e ASCS. Avrei voluto che vi emozionaste, vi arrabbiaste, vi indignaste con lei.

Perché Fiorella è una empatica. Dubito che, prenotando la sua stanza, abbia chiesto, come molti turisti fanno, non è che facendo il bagno, incappo in un cadavere?

Attraverso i suoi occhi e il suo accento bresciano giovale e aperto, faccio anche io un giro per Lampedusa: non andrò solo a lezione, ma ad incontrare lampedusani, migranti, relitti e turisti.
“Lampedusa è un’isola suggestiva. Tutto richiama alla mente quello che le sta succedendo intorno, sopra e ormai anche sotto. È strano perché di migranti in giro non se ne vedono molti. È come se si sentissero fuori luogo, a disagio e preferiscono gli scogli ai lati della spiaggia o il muretto laterale della via principale.”
Lampedusa è il deposito giudiziario dei barconi davanti ai quali sono allineati i cassonetti della spazzatura e trova spazio un parcheggio. Lampedusa è i suoi luoghi di avvistamento: dalla Porta d’Europa sulla Collina della Vergogna al lembo di terra da cui si vede la Spiaggia dei Conigli.

È il cimitero di croci senza nome dove un medico pietoso, il dott. Pietro Bartolo, prima della tumulazione preleva a ciascun corpo un pezzetto utile per l’esame del DNA. Nel caso qualche parente venisse a chiedere conto di una di quelle vite scomparse.

Volontà, quella di voler dare un nome a ciascuna vittima, che lo vede affiancato anche da Mediterranean Hope e alcuni membri del Forum di Lampedusa.
È la sede dell’hotspot più a sud d’Italia, non luogo per eccellenza, rinchiuso tra due colline e lontano dal centro. Se ancora pensavi di non essere un estraneo, lì, ti passano tutti i dubbi. Non lo pensano solo i migranti, ma lo pensano anche gli abitanti che da sempre sono abituati ad essere solidali con chi viene dal mare e che da sempre sono abituati a fare più che a dire: ad aprire porte, a dividere il pasto, a regalare vestiti o a dare passaggi a chi non è un clandestino, ma semplicemente un uomo migrante. Lo pensano anche i lampedusani, che sono arrabbiati con quel luogo chiuso, che respinge e con chi specula, con una falsa e distorta comunicazione, sugli sbarchi.
La questione dell’identità è centrale in questa narrazione collettiva.
In questo hotspot, un luogo chiuso pensato per la permanenza di 300 persone (ridotti a 200 a causa dell’incendio di una parte in seguito alla protesta dei tunisini, come la chiamano qui) per un massimo di 48 – 72 ore, i migranti sono numeri.
Numeri, nel vero senso della parola: ciascuno conserva in tasca il foglietto col suo, di numero. Utile per registrare i pasti, per segnalare le eventuali distribuzioni di beni, per essere inserito nella lista di attesa dei trasferimenti, senza preavviso, a Porto Empedocle o Agrigento, dopo che è avvenuto il foto-segnalamento.
“Non sono più persone. Gli operatori che sono qui da più tempo, come Francesco di Mediterranean Hope, progetto della Chiesa valdese e della Comunità di Sant’Egidio, raccontano – si accalora Fiorella – come i ragazzi arrivino con uno sguardo e partano con un altro. Arrivano stremati ma speranzosi come a dire il più è fatto, e ripartono spaesati. La maggior parte però semplicemente non capisce, non sa nemmeno di essere in Italia.”

Non è raro che della traversata verso la Sicilia qualcuno dei senegalesi o gambiani di più recente arrivo, ne parli come di andare in another country.

Ci sono domande dipinte sui volti dei nuovi arrivati: cosa mi succederà? Cosa faccio qui? Cosa mi verrà dato?
Davvero poco, in fatto di beni materiali: un cambio di vestiti all’arrivo indipendentemente dal tempo di permanenza e il corrispettivo di 2,50 euro al giorno in sigarette (10, se fumi) o in cioccolata. Se però si vuole telefonare a casa, per avere una credit card da 5 euro, bisogna rinunciare alla razione di due giorni di sigarette o cioccolata.
Questo per ben più di 48 ore. A Lampedusa si fa, ma non si dice. E così tutti sanno che Mediterranean hope il pomeriggio mette a disposizione dei ragazzi le proprie postazioni internet per comunicare con casa – mamma sono vivo – operazione straziante quanto difficile. Tutti sanno anche del buco nella rete da cui i ragazzi escono per andare dalle suore per la distribuzione di magliette o pantaloni. Tutti sanno, ma nessuno dice perché quei ragazzi, in questo centro senza servizi di prima accoglienza, dovrebbero starci poco tempo. Tre giorni al massimo in questi spazi ridotti (si dorme e si mangia in 10-15 per stanza) in cui uomini e donne sono divisi in barba alla tutela del nucleo familiare e in cui si trovano anche molti minori. Eh già, perché chi ha diciassette anni, alla fine è quasi maggiorenne e quindi tanto vale che si abitui alla condizione di adulto.

“Stai lontana dalla rete” ride Fiorella quando ricorda gli avvertimenti dei ragazzi che non volevano fosse vista dalle telecamere. Rete che delimita la loro esistenza fin da quando sbarcano. E che è invalicabile a tutti, sindaco compreso, tranne forze di polizia nazionali e internazionali e suore.

(Il sindaco, se chiede l’autorizzazione, però può entrare).
“Non ho visto sbarchi in diretta perché il porto è zona militarizzata”. La settimana scorsa sono arrivate almeno 150 persone a notte per tre notti, la maggior parte senegalesi e gambiani a cui si unisce qualche ivoriano.
“Fino a poco tempo fa a parte le divise, nessuno poteva assistere allo sbarco, almeno non formalmente. Ad accogliere i migranti quindi, solo mascherine guanti e, appunto, divise. Da qualche tempo, una delegazione del Forum di Lampedusa solidale cui fanno riferimento varie organizzazioni della società civile, può entrare e dare il proprio welcome a chi arriva.” Una coperta, un tè e una stretta di mano.
Immediatamente dopo lo sbarco i migranti sani vengono trasferiti al centro mentre chi necessità di cure, a seconda della gravità viene accompagnato o al poliambulatorio di Lampedusa o in elisoccorso a Palermo. Al centro, ancora prima della doccia, avviene il foto-segnalamento e viene chiesto il motivo del viaggio.
“Immaginatevi voi cosa possono dire. Davanti alla polizia per giunta. L’intervista di Frontex avviene infatti in una stanza chiusa e senza alcuna informativa precedente. Chi ha ricevuto qualche suggerimento da un amico, riesce a dire che vuole protezione, ma la maggior parte si arrende a un generico sono scappato perché nel mio paese ci sono dei problemi o sono scappato perché sono povero. Questo determina il loro futuro: richiedente asilo e quindi inseribile nel circuito dell’accoglienza nel primo caso, migrante economico e quindi espellibile nel secondo.”
È qui – nel sistema hotspot – che si creano gli irregolari che tentano di varcare le frontiere. Non si creano da altre parti. Si creano qui e gli ingredienti sono semplici: mancanza di informazioni, nessuna attenzione a trattare con persone traumatizzate, stanche e che parlano un’altra lingua.
È qui che nascono le Ventimiglia, i Brennero o i Como.
“Se un ragazzo non ha la prontezza di dire la parolina magica – protezione, rifugio, asilo – e viene superficialmente catalogato nel foglio notizie come migrante economico, una volta trasferito a Porto Empedocle o Agrigento scopre di essere prossimo all’espulsione. Nessuno glielo dice prima.”

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