La mia Belgrado

In questo tempo estivo vi racconteremo brevi note di viaggio, incontro, vita vissuta in una città che ognuno di noi ha scelto per i più diversi motivi. Oltre le guide turistiche, dentro strade e su muri, nelle piazze e in piccoli ricordi.

di Francesca Rolandi

La mia Belgrado è il mercato di Bajloni, sempre aperto ogni giorno dell’anno, dove si può comprare frutta, verdura, formaggi, carne e pesce, vestiti e scarpe usate, utensili e tutto ciò di cui si può avere bisogno.

Il mercato di Bajlon si trova sulla linea di separazione tra due zone della città, la parte alta, Skadarlija, la cosiddetta zona bohémien data da una strada con i ristoranti per turisti, e una manciata di vie a cui spesso si fa riferimento come Gornji Dorćol, e quella bassa di Donji Dorćol che scende fino al Danubio.

Prende il suo nome dall’industriale ceco Ignjat Bajloni che recuperò l’area ed è circondata da palazzi belli e decrepiti e dalla mai conclusa chiesa evangelica, la cui costruzione fu iniziata dai tedeschi durante la guerra, e che sarebbe poi diventata la sede del festival di teatro di avanguardia Bitef.

Questa frattura ha rappresentato secondo molti una linea di separazione tra due mondi, quello di sopra e quello di sotto.

Quello superiore ha sempre confinato con il centro e comprende una manciata di strade alberate e di edifici storici che hanno ospitato, tra i loro cortili, una parte rilevante della storia contemporanea serba, racchiusa in una raccolta di racconti pubblicati all’inizio degli anni ’80, da Svetlana Velmar-Jankovic.

Fu quello il momento del recupero delle radici culturali serbe che si trovavano lì piantate insieme ai platani, anche in velata opposizione al socialismo che aveva amato altra architettura e altri quartieri e fu allora che si iniziò a ristrutturare parte del patrimonio edilizio.

Era infatti la parte più antica del centro storico, con tracce delle epoche storiche precedenti e delle presenze “altre”, che rimangono intatte nell’unica moschea rimasta nella capitale serba delle molte che punteggiavano il suo paesaggio urbano e nella turbe (il monumento funerario) dello sceicco Mustafa all’angolo inferiore di Studentski trg.

Il mondo della Dorćol di sotto sostiene di essere l’unico depositario dell’anima del quartiere, con i palazzi che lasciano spazio alle casupole, ai cortili, alle zingare che siedono sulle porte, ma in un degradare dolce man mano che si scende verso il fiume.

Storicamente una periferia così vicina alla città, un tempo popolata di pescatori, dove i bambini giocano a pallone per la strada e fioriscono le piccole botteghe e più in là la zona industriale, ma soprattutto le kafane, che erano oltre 20 fino a prima della seconda guerra mondiale.

Quando arrivai nel 2006 a Belgrado per la prima volta trovai casa sul limite estremo della Dorćol superiore, nella piazza degli studenti, Studentski trg, vicino alle facoltà.

Era una città che portava addosso ancora i segni dell’isolamento degli anni ’90 e della guerra, pochi anni erano passati dall’omicidio del premier Đinđić ma erano molti più di oggi quelli che pensavano che la transizione sarebbe presto finita.

La maggior parte dei serbi era convinta di avere una reputazione pessima all’estero alla quale cercava di rimediare con una gentilezza imbarazzante verso gli stranieri.

Era una società incredibilmente bianca dove ogni diversità risaltava e quando passava una persona di colore i passanti si fermavano a guardarla. Più che altro per curiosità.

Il quartiere divenne il mio piccolo regno in cui cercare di far fronte alle necessità di tutti i giorni non conoscendo una parola di serbo e parlando un inglese imbarazzante.

“Qui una strada di sotto c’è Silicon Valley” mi disse il mio padrone di casa facendo riferimento a Strahinjića Bana, diventata la Mecca dei nuovi parvenu che sfoggiavano accompagnatrici su tacchi da capogiro e con scollature significative, sulla cui naturalezza si addensavano dubbi.

Imparai che la città era divisa in due su una linea musicale che rispecchiava una dicotomia politica: c’era chi ascoltava musica turbofolk e inseguiva il mito del denaro facile, non guardava al di fuori dei suoi confini e arrivava dalla provincia; poi chi ascoltava rock and roll ed elettronica che faceva opposizione culturale, era antinazionalista, per l’Europa, a prescindere da quale fosse il suo reale orientamento politico ed era soprattutto urbano, spesso nato in quel cerchio che il tram 2 compie intorno al centro città e in cui solo la parte superiore di Dorćol è inclusa.

Tutto sembrava estremamente semplice e consequenziale. Imparai a conoscere la città velocemente e a uscire in alcuni locali fumosi che si trovavano in delle specie di cantine e dove si suonava jugorock.

Una sera in un club dove facevano elettronica ci fu una retata in cui la polizia trattò in malo modo gli avventori. Mi spiegarono che la polizia ce l’aveva con chi ascoltava musica elettronica che era stata la colonna sonora delle proteste contro Milošević e mi fecero conoscere un gruppo che aveva di recente inciso un disco dal titolo “La vita comincia a 30 anni”.

Partii con le lacrime agli occhi mentre guardavo la sagome del ponte di Branko, Brankov most, che traeva il suo nome dal poeta ottocentesco Branko Radićević ma dal quale un altro Branko, lo scrittore Ćopić, si tolse la vita saltando nella Sava.

Avevo la sensazione che Belgrado fosse un mio piccolo spazio di conoscenza e scoperta del mondo, una scoperta che mi aveva portato a sentire l’aria di casa.

Quando tornai a casa gli amici mi chiedevano com’era lì, perché Belgrado era un posto strano in cui di solito non si andava in vacanza.

Ritornai a Belgrado con le valigie alcuni anni dopo, durante il mio dottorato. L’avevo visitata molto volte nel mezzo, complice un mio trasferimento a Sarajevo, il calore di molti amici, una relazione che si era consumata in fretta e quell’inspiegabile legame con l’energia della città che è conosciuta per mietere molte vittime.

Presi casa questa volta a Donji Dorćol, in una strada secondaria vicino a una via che si chiamava ufficialmente Venizelosova, ma che tutti chiamavano Đure Đakovića, dal nome di un vecchio rivoluzionario. La città mi sembrò subito culturalmente molto più vivace ma ero io a coglierne le potenzialità che prima non vedevo.

Dorćol era una dimensione a sé, dove convivevano diverse botteghe, un bar cool ma molto verace, qualche posto elegante come un locale con cortile dove spesso si faceva jazz, i palazzi di Gundulićev venac e le casupole abusive, infiniti cortili dove viveva la nutrita comunità rom dorcoliana.

La mia era una piccola casa accogliente costruita in barba a qualsiasi piano edilizio, vicina di casa una suora ortodossa e al numero a fianco sorgeva un finto castello, della cui proprietà non ho mai saputo nulla di certo, ma che a un certo punto iniziò ad essere presidiato da due SUV con i vetro oscurati.

Al mercato erano già meno i contadini che vendevano la loro merce e sempre più gli intermediari. In uno scantinato all’angolo della piazza viveva un antiquario maneggione, che si faceva chiamare con un nome americano e amava raccontare le sue avventure sessuali, dai tempi in cui, correvano gli anni delle proteste, a dir suo aveva fatto sesso con mezza Germania (Ovest).

Oggi Belgrado è molto cambiata rispetto a dieci anni fa. E’ una città a contatto con il mondo, ha ritrovato quel ruolo di grande capitale internazionale che aveva già avuto durante la Jugoslavia e camminando per il suo centro saltano all’orecchio molte lingue.

Si è aperta al turismo hipster che trova nutrimento nei suoi mille locali e nella sua leggendaria vita notturna. In centro non ci sono più i seminterrati fumosi dove si facevano concerti rock né le kafane sporche e cattive dove si trovava un’umanità pittoresca, ma ci sono molti locali, patinati oppure alternativi, come il nuovo distretto in Cetinska ulica.

Anche il mercato di Bajloni si è dimostrato al passo con i trend e ha aperto per la prima volta le sue porte in versione serale, per far provare ai visitatori le prelibatezze della Serbia. Silicon Valley è diventato un posto normale frequentato da gente normale. La crisi economica ha dato alla città l’ennesima bastonata e i segni della povertà sono evidenti, come anche la dignità dell’andare avanti.

Alla stazione ci sono profughi e migranti, ormai parte del paesaggio urbano, che cercano di crearsi una loro personale rotta balcanica da quando quella ufficiale è stata sigillata.

Alle spalle della stazione degli autobus, dietro la miseria dei senza speranza, spiccano le costruzioni di Belgrade Waterfront, il megalomane progetto di rinnovamente cittadino che guarda a Dubai come modello ma che ha anche scatenato un movimento trasversale che si oppone all’arroganza del potere e alla speculazione edilizia. C’è da sperare che riesca a tutelarne l’anima autentica dai palazzi di vetro che si avvicinano sempre più.