di Alessandra Governa
Chi è espulso in 30 giorni deve presentarsi all’aeroporto di Fiumicino per essere rimpatriato. In mano, solo un foglio incomprensibile ai più. Chi di noi, onestamente, si presenterebbe a sue spese, attraversando metà di un paese che non conosce, in un aeroporto per ritornare dal punto di partenza? Chi di noi, anche senza qualcuno che lo aspetta in Francia, in Germania, in Inghilterra, non proverebbe a proseguire il viaggio?
Nessuno ormai scampa al foto-segnalamento. Chi non vuole essere identificato, rimane nel centro a tempo indeterminato. La regola è: no identificazione, no lista di attesa. Le persone cedono a foto e impronte per sfinimento. Nemmeno questo però da loro la sicurezza sui tempi di trasferimento che a volte avviene anche dopo due mesi.
A volte dipende anche dalla disponibilità di posti nei centri di destinazione. I traghetti partono due volte a settimana e ai migranti, divisi per gruppi di 10, viene assegnato un funzionario di polizia che li scorterà per la traversata. Hanno la precedenza, bisogna ammetterlo, donne e bambini che è raro aspettino per troppo tempo.
Non c’è violenza, ma un sottile ricatto. E tra l’identificazione e la partenza, c’è finalmente tempo per le informative di gruppo da parte di UNHCR o OIM o per la raccolta delle storie personali. Cosa potranno mai fare uno psicologo e sei funzionari a rotazione (ogni due settimane più o meno vengono cambiati) delle agenzie internazionali davanti a oltre 400 migranti?
Fiorella è operatrice legale presso un consorzio di cooperative Tenda – Solidarietà e cooperazione Brescia Est, sito a Montichiari e si ripete che è stata un’esperienza forte, “più forte di quando arrivano i ragazzi al centro perché questa è la prima fase, dove la vulnerabilità è massima.”
Non c’è stato solo il parlare con i migranti o il vederli mimare le torture subite in Libia durante uno spettacolo teatrale quasi improvvisato. C’è stato il vivere le due velocità dell’isola. Una, la più forte, che considera i migranti come figli e non come problema. L’altra, la più snervante, che fa del non sense e della miopia il suo biglietto da visita.
Due velocità, due tre, mille emozioni contrastanti – la rabbia, l’impotenza, il dolore, il rimpianto – che diventano una nelle testimonianze che Fiorella ha raccolto (e sulle quali, lo sento, le si incrina ancora la voce o come dice lei sulle quali ho pianto lacrime pesanti). Come quella del pescatore Costantino che per primo, in quel maledetto 3 ottobre di quasi tre anni fa, ha cominciato a raccogliere i superstiti del naufragio.
“Si ricorda ancora come erano vestiti, Costantino. Ne ha salvati una ventina, ma gli piange il cuore per essere arrivato in ritardo proprio quella mattina. Lui che esce in mare sempre alle 6,00 e quel giorno è arrivato alle 7,00. Quanti ne avrei potuti salvare in più? continua a ripetersi” Si ricorda come erano vestiti e i gabbiani urlanti sopra di lui.
O come quella del dott. Bartolo che racconta di cadaveri arrivati tagliuzzati dai trafficanti di organi.
Perché anche la traversata è cambiata. Se non fosse una tragedia verrebbe da dire non ci sono più i barconi di legno di una volta, con le stive in cui venivano ammassate le persone, quelle che poi nel tentativo disperato di uscire perdevano le unghie a furia di raspare il soffitto e le botole e venivano per questo picchiate da quelli che stavano sopra fino a morire di botte. Per sopravvivenza, in un inconcepibile per chi non lo ha vissuto mors tua vita mea.
Ora ci sono i gommoni, con un’autonomia di tre – quattro miglia, un migrante alla guida che accetta di seguire la rotta in cambio di uno sconto sul costo della traversata e un telefono satellitare con impostato il numero della guardia costiera.
I gommoni sono fatti per affondare: si piegano in due come panini, imbarcano acqua che si mescola al gasolio. I sopravvissuti, quando va bene, arrivano con ustioni di terzo grado.
La chiamano patologia del gommone. Per la guardia costiera, una volta individuati i natanti alla deriva, è una lotta contro il tempo.
“Imparare a restare umani fin da piccoli. Sperimentare, attraverso i cinque sensi, che chi arriva e chi parte dal mare è uno come te.” Ecco, credo, la speranza che si porta a casa Fiorella dopo questa settimana.
Un mare di speranza, come il titolo della summer school, che se oggi è così, non necessariamente lo dovrà essere per sempre. Lampedusa docet.