Il caffè dell’accoglienza

Dallo scorso dicembre, a Parigi, a pochi metri dal campo di migranti di Stalingrad, ogni martedì si tiene il caffè dell’accoglienza, movimento cittadino in solidarietà dei rifugiati, un segnale importante da parte della società civile, soprattutto dopo il recente giro di vite della polizia, che nelle ultime settimane ha evacuato ripetutamente e con violenza tutti i campi della capitale.

di Valeria Nicoletti

A Stalingrad, nord di Parigi, il canale riflette le poche nuvole di un tardo pomeriggio agostano. Sulle rive del Canal de l’Ourcq, qualche tenda, pochi materassi abbandonati, il vociare dei caffè e le automobili superstiti alla grande fuga estiva che trasforma la capitale in una città quasi fantasma allo scoccare del primo giorno d’agosto. Tra Stalingrad e Jaurès, e ancora, a poche fermate di metropolitana, a La Chapelle, da quasi un anno centinaia di rifugiati, eritrei, etiopi, afgani, sudanesi, maliani, vivono in condizioni precarie, all’aperto, ripetutamente evacuati dalla polizia, condannati a un iter burocratico interminabile per rivendicare il diritto all’asilo.

Un equilibrio tenuto difficilmente sotto controllo, esploso nelle ultime settimane, con un giro di vite da parte della polizia di stato.

Dal 31 luglio scorso, i campi dei migranti sono stati evacuati almeno sette volte, con modalità che rasentano la legalità: incursioni a sorpresa, uso improprio di manganelli e gas lacrimogeno, violenze fisiche su donne e minori, scariche elettriche alla minima reticenza. Di fronte al silenzio dei politici locali e dei media, ancora una volta, è la società civile che si muove, un passo alla volta, passando parola, una consuetudine che a Parigi, fortunatamente, è meno rara di quanto si pensi.

Dallo scorso dicembre, al caffè L’Epoque, a poche centinaia di metri da Avenue des Flandre, dove è situato un ingente accampamento di migranti e rifugiati, ogni martedì sera, dalle 19 alle 21, Bahia, 28 anni, professoressa al liceo e membro del CPSE, Collettivo Parigino di Sostegno agli Esiliati e ai Migranti, recluta idee, volontà e nuove persone per aiutare i rifugiati in difficoltà nella capitale francese. Si chiama cafè de l’accueil, letteralmente caffè dell’accoglienza, un’iniziativa nata e cresciuta completamente dal basso: “L’obiettivo è quello di dissipare dubbi e confusioni sulla situazione dei migranti in Francia e in particolare a Parigi”, spiega Bahia, “ma soprattutto dare a chiunque ne abbia voglia gli strumenti per agire, da soli, in autonomia, nelle poche ore libere a disposizione, senza necessariamente affiliarsi a un collettivo o a un’associazione”.

Siamo circa una trentina, un discreto successo per essere un pomeriggio d’agosto a Parigi. Seduti intorno a Bahia, donne, tante, uomini, pochi, “preparatevi, siete in pochissimi voi uomini”, facce normali, come tante, dai 20 ai 60 anni, tutti arrivati qui più o meno allo stesso modo, “cercavo notizie su internet, su come aiutare i rifugiati e vi ho trovati”, e tutti animati dallo stesso intento, donare qualche ora del proprio tempo, la propria disponibilità, aiutare, dare una mano, passare parola, un gesto, anche piccolissimo, in sostegno ai circa 700 migranti e rifugiati che vivono per strada nella capitale francese. Dominique è particolarmente coinvolta: “abito su avenue della République e ho scoperto solo poco tempo fa che a pochi metri da casa mia intere famiglie vivono per strada, mi sono vergognata e ho deciso di fare qualcosa”. Così anche altre due ragazze, che hanno contattato Bahia perché dalla finestra ogni giorno assistono al triste spettacolo di avenue des Flandres e vorrebbero poter aiutare.

L’atmosfera è rilassata e amichevole e, soprattutto, ci si dà subito del tu, atteggiamento non scontato in una città dove anche amici di vecchia data continuano a darsi del voi.

Il collettivo parigino CSPE è nato subito dopo l’evacuazione del liceo Jean-Quarré, lo scorso autunno. Per tutto l’inverno, i volontari hanno combattuto nella speranza di poter ricevere dalla Città di Parigi l’autorizzazione a riciclare palestre e scuole inutilizzate per accogliere i migranti durante i giorni più freddi. Invano. L’appoggio delle istituzioni locali è magro, il più delle volte inesistente. Pochissimi hanno preso la parola, nessuno ci ha messo la faccia per porre fine alle violenze degli ultimi giorni. “Quella delle scorse settimane è una situazione inedita e fortemente drammatica”, spiega Bahia, “perché assistiamo inermi a un giro di vite da parte della polizia di stato”, una strategia messa magistralmente a punto che prevede un arrivo a sorpresa, l’accerchiamento di tutte le persone presenti sul campo e, di recente, una violenza sproporzionata sì ma “volontariamente controllata”, come spiega Bahia, “per incutere paura ma senza lasciare tracce”. Tutto questo, in un contesto già fortemente teso, dopo la morte di Adama Traoré, giovane manifestante di 24 anni, deceduto lo scorso 19 luglio, durante un interrogatorio della polizia, in circostanze ancora da chiarire.

Nel corso dell’ultima settimana, i temuti CRS, il corpo della polizia di stato, sono piombati a sorpresa, spesso simultaneamente, su più campi di migranti, imbarcando uomini, donne e minori per condurli verso destinazioni non meglio specificate.

Le associazioni contrastano quello che chiamano ormai un razzismo istituzionalizzato, soprattutto dopo le ultime evacuazioni della polizia, che hanno lasciato libere le persone di origine eritrea e fermato tutti i sudanesi, più facili da espellere dal suolo francese. “Non rispondono alle domande, danno volontariamente indicazioni confuse”, spiega Bahia, “ritrovare i migranti dopo è una vera e propria caccia all’uomo”. Senza contare che agli esiliati fermati dalla polizia è vietato ritornare sul posto per riprendere i loro averi e che, la maggior parte delle volte, tutto il materiale per dormire all’aperto, frutto di collette e donazioni private, è disperso o portato via dalla polizia. “Dopo un intervento del genere, spesso è necessario ricominciare da capo”.

Le conseguenze di tale incursione di sicurezza possono essere gravi. Non è infrequente, infatti, che si perdano le tracce di minori, donne o intere famiglie, aventi bisogno di cure.

“Oggi ad esempio avremmo dovuto incontrare uno di loro per condurlo dal medico, per curare un ascesso in condizioni disastrose, ma non l’abbiamo più ritrovato”. Un passo avanti, due passi indietro, sempre con la sensazione di non fare abbastanza.
Ma cosa succede a chi finisce sulle camionette della polizia? Nella migliore delle ipotesi, se i documenti sono in regola o se la procedura per la richiesta d’asilo è già stata attivata, si tenta di mettere i migranti al riparo, di trovare loro un tetto. Sono in molti a ritornare in strada, senza più i loro averi, costretti a cercare un altro angolo di strada, un altro vicolo, un’altra panchina dove riposare. Per i più sfortunati, gli ultimi arrivati, quelli che ancora non hanno dato via alla richiesta d’asilo, si ritorna in strada, ma con in tasca l’ordine di lasciare il territorio francese entro 30 giorni. “Il lato grottesco della vicenda è che la polizia non spiega loro che cos’è quel foglietto, anzi spesso costringono chi non sa leggere il francese a firmare, assicurandogli una promessa d’alloggio”, continua Bahia, “molti ci vengono a trovare, contenti, pensano di aver avuto un permesso temporaneo di soggiorno, invece si deve ricominciare da capo, occorre contestare l’ordine di abbandonare il suolo, procedere per vie legali a volte, e un iter già di per sé complicato si allunga inutilmente”. Nella nazione che rivendica d’essere il paese dei diritti umani, fare richiesta d’asilo significa aspettare davanti alla porta di France Terre d’Asile, nel 19simo distretto di Parigi, a volte per settimane. “C’è una decina di ragazzini che dorme davanti alla porta per non perdere il posto”, racconta Bahia, “e quelli che vengono alloggiati temporaneamente finiscono in alberghetti di bassa lega e vengono a trovarci pochi giorni dopo con il torso ricoperto di punture d’insetti e dei segni della scabbia”.
Custodie cautelari, centri di detenzione, obbligo d’espulsione, questa la risposta della Francia ai richiedenti asilo, “per questioni di salubrità e sicurezza”, secondo la versione ufficiale delle forze dell’ordine che, negli ultimi giorni, hanno reagito con violenza anche contro i manifestanti e i membri dei collettivi solidali: “se ci limitiamo a portare qualche piatto caldo va bene, se iniziamo ad alzare la voce, a denunciare le illegalità, finiamo al commissariato”.

L’atteggiamento della polizia di stato si deve soprattutto a due ragioni: siamo in agosto, meno testimoni, soprattutto tra i media e tra i membri delle associazioni di volontariato, ma soprattutto, il giro di vite dei CRS segue l’annuncio da parte della Città di Parigi dell’imminente apertura di un nuovo centro d’accoglienza, con due sedi, nelle zone nord e sud-est della capitale.

“Lo Stato francese non fa buon viso a cattivo gioco”, spiega Bahia, “ha chiaramente espresso la volontà di non accettare migranti sul suolo nazionale, la Città di Parigi ha quindi agito in direzione contraria”. La Francia è già stata condannata per non aver rispettato il diritto all’asilo. Basterebbe poco per cominciare. “In Germania, ad esempio, nelle stazioni principali ci sono degli sportelli informativi”, continua Bahia, “intercettano i migranti al loro arrivo, ne registrano le informazioni principali e li dirigono verso i centri d’accoglienza meno affollati”. La stessa intenzione della Città di Parigi, di creare un nuovo centro, non è abbastanza: “nel progetto si parla di accoglienza giornaliera, quindi di notte i rifugiati ritornano in strada”.

Oggi a Parigi l’affluenza giornaliera è di circa 50-100 nuovi migranti al giorno. Arrivano in treno, in autostop, con passaggi di fortuna, molti giungono a piedi da Ventimiglia.

Nessuna istituzione si occupa dell’accoglienza e dell’asilo dei rifugiati, oggi totalmente a carico delle associazioni di cittadini, poche ma attivissime e organizzate, che operano sul territorio. Tutte con un solo obiettivo: “rivendicare una reale politica d’accoglienza per gli esiliati e i rifugiati, che non faccia una selezione in base alla nazionalità o allo statuto giuridico e il rispetto della libertà di circolazione sul suolo nazionale”, in virtù non solo del rispetto della dignità umana ma dell’articolo 14 della Dichiarazione universale dei diritti umani, secondo cui “Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni”.

Qui la raccolta fondi per il sostegno ai migranti